Novità dalla Cassazione in materia di sicurezza e reati contro il patrimonio

di Luca Pistorelli


Rif. Norm.: c.p. artt. 572, 609 ter, 612 bis, 625, 628, 640 ter, 682; d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 24 bis; c.p.p. art. 282 bis, 299, 380, 384 bis, 398, 406, 408, 415 bis.

Sommario: Premessa – 1. Le modifiche al codice penale: reati contro la persona. – 2. (segue) reati contro il patrimonio, frode informatica e responsabilità da reato degli enti. – 3. Le modifiche al codice di procedura penale. Premessa.

La legge 15 ottobre 2013, n. 119 (Gazz. Uff. 15 ottobre 2013, n. 242) ha convertito con modifiche il d.l. n. 93/2013, con il quale nello scorso agosto erano state introdotte, tra l’altro, diverse modifiche al codice penale in materia di atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, frodi informatiche, furto, rapina e ricettazione, nonché al codice di rito. Di seguito si esamineranno le ulteriori modifiche apportate dalla legge di conversione rinviando per l’analisi delle disposizioni convertite senza modifiche a quanto illustrato con la Relazione di questo Ufficio sul decreto legge (Rel. n. III/01/2013). 1.Le modifiche al codice penale: reati contro la persona. Come si ricorderà il decreto legge aveva esteso l’aggravante speciale prevista dal secondo comma dell’art. 572 c.p. per il caso che il delitto di maltrattamenti in famiglia venga consumato ai danni di minori infraquattordicenni anche all’ipotesi in cui il reato sia commesso alla presenza di un minore di anni diciotto, intendendo in tal modo attribuire specifico rilievo giuridico alla c.d. “violenza assistita”, intesa come il complesso di ricadute di tipo comportamentale, psicologico, fisico, sociale e cognitivo, nel breve e lungo termine, sui minori costretti ad assistere ad episodi di violenza. E la medesima fattispecie il legislatore dell’urgenza aveva utilizzato per configurare, nell’inedito n. 3 sexies del terzo comma dell’art. 628 c.p., una nuova aggravante della rapina. La novella aveva suscitato sul punto qualche perplessità, non già per la scelta di riconoscere valenza aggravante alla circostanza che un minore venga costretto ad assistere ad azioni violente, quanto, piuttosto, per quella di circoscrivere la rilevanza della stessa ai soli reati di maltrattamenti in famiglia e di rapina. Appariva infatti incomprensibile il criterio di selezione adottato dal legislatore dell’urgenza e, soprattutto, irragionevole la mancata configurazione dell’aggravante anche in relazione a reati di maggiore gravità di quelli menzionati. Riserve di cui il Parlamento si è fatto carico, tanto che la legge di conversione ha soppresso sia il secondo comma dell’art. 572, che il citato n. 3 sexies del terzo comma dell’art. 628 ed ha invece provveduto a configurare una nuova aggravante comune – collocata nell’inedito n. 11quinquies dell’art. 61 c.p. – per il caso che i delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale, nonché il delitto di maltrattamenti vengano commessi «in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza». In tal modo il legislatore non ha solo esteso l’ambito di applicazione delle speciali aggravanti previste per i maltrattamenti in famiglia (e la rapina), nonché introdotto una nuova aggravante comune (quella dello stato di gravidanza della vittima del reato), ma ha altresì ampliato l’estensione di quella originariamente prevista dal secondo comma dell’art. 572 c.p. (reato commesso in danno di minore infraquattordicenne), attribuendo effetto aggravante al fatto commesso in danno non solo del minore infraquattordicenne, bensì del minore tout court. Ciò detto appare opportuno mettere in luce alcune potenziali problematicità della nuova previsione, dovute all’interferenza con altre disposizioni del codice penale. Innanzi tutto deve ricordarsi come la consumazione di un delitto contro la persona – formula idonea a ricomprendere almeno le prime tre tipologie di reati menzionati nel n. 11 quinquies dell’art. 61 – ai danni di un minore già integra l’aggravante prevista dal n. 11 ter dello stesso art. 61 (introdotto dalla l. n. 94/2009: v. Rel. n. III/09/09) qualora il fatto sia commesso all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione. Evidente peraltro in questo caso è il rapporto di specialità intercorrente tra le due fattispecie aggravanti, talchè, qualora ricorra la specifica condizione contemplata dal n. 11 ter, non potrà trovare applicazione il successivo n. 11 quinquies di nuovo conio. E sempre ricorrendo al principio di specialità sembra potersi risolvere anche l’apparente concorso tra la nuova aggravante comune e quelle previste dall’art. 609 ter, comma primo, nn. 1 e 5, e comma secondo per il reato di violenza sessuale e dall’art. 609 quater, comma secondo, per quello di atti sessuali, le cui fattispecie contemplano evidenti elementi specializzanti. Per completezza va altresì precisato che non vi è invece alcuna interferenza tra l’art. 61 n. 11 quinquies ed il terzo comma dell’art. 612 bis c.p., che pure prevede un’aggravante ad effetto speciale degli atti persecutori se la vittima dello stesso è un minore, giacchè lo stalking non è reato contro la libertà personale (bensì contro la libertà morale) e dunque non rientra nell’ambito di applicazione della nuova fattispecie. Infine, nei casi in cui la consumazione della condotta ai danni di un minorenne sia già prevista come elemento costitutivo del fatto tipico di uno dei reati ricompresi nell’elenco dell’art. 61 n. 11 quinquies (si pensi agli atti sessuali con minore infraquattordicenne) è da escludersi che la nuova aggravante (in parte qua) possa essere contestata, in quanto assorbita nella autonoma previsione incriminatrice. Un’ultima annotazione deve essere fatto con riguardo alla soppressione della previsione che il decreto aveva introdotto al n. 3 sexies del terzo comma dell’art. 628 c.p. Se infatti, come detto, l’intenzione del Parlamento sembra sia stata quella di configurare un’attenuante comune che assorbisse i contenuti anche di quella speciale ora soppressa, il risultato dell’intervento normativo deve ritenersi abbia tradito tale intenzione. Infatti, come pure si è evidenziato, l’aggravante dell’art. 61 n. 11 quinquies trova applicazione esclusivamente con riguardo alle tipologie di reato espressamente indicate in tale disposizione, tra le quali non vi è quella dei reati contro il patrimonio nella quale deve essere iscritto quello di rapina. A meno di non credere ad un ripensamento del legislatore sull’effettivo ambito di operatività del legislatore, la segnalata discrasia sembra il frutto di una svista, alla quale peraltro non è possibile porre rimedio in via interpretativa, atteso che quelle evocate nella nuova disposizione coniata dalla legge di conversione sono categorie formali ben definite dal codice penale, di cui il principio di tassatività impedisce qualsiasi manipolazione. Ne consegue che la soppressione del citato n. 3 sexies nel terzo comma dell’art. 628 c.p. comporta la definitiva abrogazione dell’aggravante ivi contemplata. Quanto alla fattispecie della «persona in stato di gravidanza», va ricordato come proprio il decreto aveva introdotto (utilizzando una formula certamente più appropriata) nel n. 5 ter nell’art. 609 ter una aggravante ad effetto speciale del reato di violenza sessuale commesso ai danni della donna in stato di gravidanza, che la legge di conversione ha confermato. Anche in questo caso il concorso tra le due disposizioni aggravatrici si rivela solo apparente, dovendosi ritenere speciale la previsione in materia di violenza sessuale. Analogamente a quanto osservato in precedenza per i reati commessi ai danni di minori, non sussiste invece alcuna interferenza tra l’aggravante comune introdotta dalla novella e quella prevista dal terzo comma dell’art. 612 bis c.p. per il caso che vittima di atti persecutori sia una donna in stato di gravidanza, atteso che, come detto, tale delitto non rientra tra quelli contro la libertà personale presi in considerazione dall’art. 61 n. 11 quinquies. La legge di conversione è poi autonomamente intervenuta anche sull’aggravante di cui al già citato n. 5 dell’art. 609 ter c.p., innalzando la soglia di età della vittima della violenza sessuale dell’ascendete, del genitore o del tutore da sedici a diciotto anni, nonché sulla disposizione di cui al successivo art. 609 decies, estendendo l’obbligo di comunicazione al Tribunale per i minorenni anche nell’ipotesi in cui si procede per i reati di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori commessi in danno di minori o da un genitore di un minore ai danni dell’altro genitore. Con riguardo al reato di atti persecutori la legge di conversione ha definitivamente superato le perplessità che aveva generato l’originaria formulazione del secondo comma dell’art. 612 bis c.p. Come noto, il d.l. n. 11/2009 (conv. in l. n. 39/2009) aveva infatti configurato in tale comma, come circostanza aggravante del reato, il fatto che lo stesso venisse commesso dal coniuge legalmente separato o divorziato ovvero dall’ex partner della vittima («da persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa»). Al di là delle perplessità legate allo scarso impegno profuso nella definizione della nozione di “relazione affettiva” (peraltro riproposta anche dalla novella anche nell’art. 609 ter n. 5 quater), che si presta a incontrollate estensioni interpretative dell’aggravante, dubbi aveva suscitato la decisione di limitarne l’operatività esclusivamente alle specifiche situazioni nominate, escludendo la rilevanza aggravante dello stalking nei confronti del coniuge separato solo di fatto e di quello compiuto in costanza di rapporto affettivo. Scelta che aveva suscitato per l’appunto qualche critica e che il d.l. n. 93/2013 aveva rinnegato solo parzialmente, giacchè, nel modificare il citato secondo comma dell’art. 612 bis, aveva provveduto ad eliminare il riferimento al carattere “legale” della separazione, continuando però a circoscrivere l’ambito di operatività dell’aggravante alle sole relazioni affettive non più in corso di svolgimento. Recuperando peraltro la simmetria con quanto contestualmente configurato in tema di violenza sessuale al n. 5 quater dell’art. 609 ter, la legge di conversione ha ora definitivamente recepito le osservazioni critiche da più parti avanzate ed ha stabilito che l’aggravante degli atti persecutori in oggetto si applica anche nel caso in cui il reato venga commesso in costanza di relazione affettiva. Una parziale retromarcia ha operato invece il legislatore sulla scelta più significativa operata dal decreto legge in materia di atti persecutori e cioè quella relativa alla irrevocabilità della querela. Anche in questo caso val la pena ricordare come il legislatore del 2009 avesse disposto al quarto comma dell’art. 612 bis che il reato fosse procedibile a querela (salvi i casi di connessione con reati procedibili d’ufficio o di persona offesa minorenne o disabile), estendendo però il termine per la sua presentazione fino a sei mesi, così come previsto per i reati sessuali dall’art. 609 septies c.p. Dopo un articolato dibattito sul punto, lo stesso legislatore aveva invece deciso di non riproporre anche la clausola di irrevocabilità della querela prevista dal terzo comma della disposizione da ultima citata. Circostanza che aveva suscitato più di una critica in ragione dei rischi cui poteva essere esposta la vittima del reato, possibile obiettivo di ulteriori minacce e violenze finalizzate ad ottenere, per l’appunto, il ritiro della querela. Critiche che il decreto aveva per l’appunto inteso recepire, aggiungendo nel quarto comma dell’art. 612 bis la menzionata clausola di irrevocabilità. Scelta che però ha avuto vita breve, giacchè la legge di conversione è nuovamente tornata sulla disposizione citata, cercando un compromesso tra le opposte esigenze di rispettare la libertà della vittima del reato e di garantirle una tutela effettiva contro il menzionato rischio di essere sottoposta ad indebite pressioni. In tal senso il Parlamento ha deciso di ripristinare la revocabilità della querela, salvo che nel caso in cui il reato sia stato realizzato «mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma», ma ha posto come condizione che la remissione sia esclusivamente «processuale», eccependo dunque al secondo comma dell’art. 152 c.p., per il quale la remissione può invece essere anche extraprocessuale. La progressiva evoluzione della norma sembra peraltro suggerire che l’implicita intenzione del legislatore sia stata quella di affidare al giudice il compito di svolgere una verifica effettiva sulla spontaneità della eventuale remissione della querela. Non va per contro dimenticato come per il combinato disposto degli artt. 152 c.p. e 340 c.p.p. è remissione processuale della querela anche quella resa alla polizia giudiziaria o mediante procuratore speciale, talchè lo strumento cui la novella si è affidata per prevenire eventuali illeciti condizionamenti non sembra particolarmente funzionale allo scopo, a meno di non voler interpretare la formula normativa nel senso che per remissione processuale si sia voluto intendere soltanto quella effettuata dinanzi al giudice, ma, come evidenziato, questa lettura potrebbe apparire come una ingiustificabile forzatura di un dato testuale non equivoco. Sotto altro profilo va poi evidenziato che, una volta ripristinata la regola generale della revocabilità della querela, la speciale fattispecie di irrevocabilità, pure configurata dal legislatore, in quanto eccezionale, deve essere interpretata in maniera assai rigorosa. Posto dunque che viene in rilievo esclusivamente l’ipotesi in cui gli atti persecutori siano realizzati anche attraverso minacce reiterate, rimane comunque un dubbio interpretativo sull’effettivo significato da attribuire alla locuzione «nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma» e cioè se con tale formula si sia voluto fare riferimento tanto alla eventuale gravità delle minacce, quanto alle modalità tipiche di realizzazione delle medesime evocate dalla disposizione richiamata attraverso il rinvio all’art. 339 c.p. ovvero solo a queste ultime (come pervero sembrerebbe suggerire il tenore testuale della disposizione che ricorre al termine «modi» esattamente come effettuato dal secondo dell’art. 612 nell’operare il menzionato rinvio). La differenza non è ovviamente marginale, atteso che scegliendo la prima soluzione si amplierebbe – e non di poco – la portata dell’eccezione, ma al contempo si demanderebbe al giudice investito di una eventuale remissione della querela di esprimere un probabilmente inopportuno apprezzamento sulla natura della condotta contestata. Sul punto è necessaria un’ulteriore osservazione. Come già evidenziato nella Relazione di questo ufficio sul decreto legge, deve riconoscersi che molte delle disposizioni introdotte dalla novella provvedono “di fatto” ad adeguare l’ordinamento interno ai contenuti della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (l. 27 giugno 2013, n. 77), ratificata recentemente dall’Italia, ma non ancora in vigore. E in tal senso poteva leggersi anche la scelta di rendere irrevocabile la querela per un delitto la cui ambientazione è frequentemente (ancorchè, è bene ricordare, non esclusivamente) quella domestica, apparsa in linea con l’art. 55 della suddetta Convenzione, per il quale la repressione dei reati di cui la stessa si occupa non dovrebbe dipendere interamente da una segnalazione o da una denuncia della vittima dei medesimi. E’ dunque evidente che, alla luce introdotte sul punto dalla legge di conversione, la sintonia tra ordinamento interno e norma convenzionale costituita dal legislatore dell’urgenza viene meno. Il Parlamento ha infine innalzato il limite edittale massimo della pena del reato di minaccia non aggravata, di cui al primo comma dell’art. 612 c.p., portandolo da 51 a 1.032 euro. 2. (segue) reati contro il patrimonio, frode informatica e responsabilità da reato degli enti. Le modifiche apportate dal decreto legge all’art. 628 c.p. sono state integralmente confermate dalla legge di conversione, con l’eccezione dell’aggravante ad oggetto la rapina commessa in presenza di minori, la quale, come si è già illustrato, è stata soppressa, ma non sostituita dall’aggravante comune introdotta all’art. 61 n. 11 quinquies. La legge di variazione non ha apportato alcuna variazione alle modifiche introdotte dal decreto agli artt. 625 e 648 c.p., mentre in materia di frode informatica (art. 640 ter c.p.) la novella ha opportunamente provveduto a definire in maniera più coerente la condotta oggetto dell’aggravante speciale configurata dal legislatore dell’urgenza, recependo in tal modo le perplessità che erano state da più parti sollevate in proposito. Come si ricorderà, nella sua formulazione originaria la nuova fattispecie riguardava il fatto commesso con sostituzione dell’identità digitale, locuzione di cui era stata rilevata l’ambiguità e la sostanziale inidoneità a cogliere il fenomeno del furto d’identità, reale obiettivo dell’intervento normativo. Il parlamento ha dunque provveduto a riformulare la disposizione, ancorando l’aggravante, in maniera questa volta esplicita, al furto e all’indebito utilizzo dell’altrui identità digitale, purchè commessi in danno di uno o più soggetti. Quanto alla nozione di “identità digitale” – non fornita dalla nuova disposizione -, va evidenziato che la stessa è comunemente intesa come l’insieme delle informazioni e delle risorse concesse da un sistema informatico ad un particolare utilizzatore del suddetto sotto un processo di identificazione, che consiste (per come definito invece dall’art. 1 lett. u ter del d. lgs. 7 marzo 2005 n. 82) per l’appunto nella validazione dell’insieme di dati attribuiti in modo esclusivo ed univoco ad un soggetto, che ne consentono l’individuazione nei sistemi informativi, effettuata attraverso opportune tecnologie anche al fine di garantire la sicurezza dell’accesso. Il nuovo secondo comma dell’art. 640 ter non stabilisce nemmeno cosa si intenda per “furto di identità digitale”. Escluso che la locuzione alluda alla fattispecie di cui all’art. 624 c.p., atteso che l’identità, in quanto tale, non è cosa corporale che può costituire oggetto di sottrazione o impossessamento nel senso accolto dalla disposizione citata, sembra in proposito potersi far riferimento alla definizione contenuta nell’art. 30 bis d. lgs. n. 141/2010, in base al quale per furto d’identità s’intende: a) l’impersonificazione totale e cioè l’occultamento totale della propria identità mediante l’utilizzo indebito di dati relativi all’identità e al reddito di un altro soggetto (che può riguardare l’utilizzo indebito di dati riferibili sia ad un soggetto in vita sia ad un soggetto deceduto); b) l’impersonificazione parziale e cioè l’occultamento parziale della propria identità mediante l’impiego, in forma combinata, di dati relativi alla propria persona e l’utilizzo indebito di dati relativi ad un altro soggetto, nell’ambito di quelli sub a). Peraltro va evidenziato che la definizione sopra richiamata è stata calibrata sulle esigenze della normativa in materia di credito al consumo contenuta nel d. lgs. n. 141/2010, il cui citato art. 30 bis espressamente precisa come la stessa sia stata resa ai fini del suddetto decreto. Circostanza che potrebbe suscitare qualche dubbio sulla sua esportabilità, tanto più che, qualora effettivamente dovesse farsi coincidere il furto d’identità con l’impersonificazione, non è chiaro quale sarebbe il reale ambito applicativo dell’altra condotta presa in considerazione dalla novella e cioè quella di indebito utilizzo dell’identità digitale, giacchè anche colui che faccia uso di un’identità per fini diversi da quelli per cui era stato autorizzato apparentemente impersonifica un altro soggetto. La legge di conversione – senza peraltro che dai lavori parlamentari emergano le ragioni di tale scelta radicale – ha invece soppresso le modifiche che il d.l. n. 93/2013 aveva apportato in materia di responsabilità da reato degli enti. Come si ricorderà, l’art. 9 del decreto aveva infatti inserito nei cataloghi dei reati presupposto – all’art. 24 bis del d. lgs. n. 231/2001 – le fattispecie di frode informatica aggravata dalla sostituzione dell’identità digitale, nonché quelle di indebito utilizzo, falsificazione, alterazione e ricettazione di carte di credito o di pagamento di cui all’art. 55 comma 9 del d. lgs. n. 231/2007 e i delitti (ma non le contravvenzioni) in materia di violazione della privacy previsti dal d. lgs. n. 196/2003 e cioè le fattispecie di trattamento illecito dei dati (art. 167), di falsità nelle dichiarazioni notificazioni al Garante (art. 168) e di inosservanza dei provvedimenti del Garante (art. 170). Infine il Parlamento ha esteso la fattispecie di introduzione clandestina in luoghi militari (art. 260 c.p.) – analogamente a quanto aveva fatto il decreto con quella di cui all’art. 682 c.p. – anche «agli immobili adibiti a sedi di ufficio o di reparto o a deposito di materiali dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, l’accesso ai quali sia vietato per ragioni di sicurezza pubblica». 3. Le modifiche al codice di procedura penale. Numerose sono anche le modifiche e le novità apportate in sede di conversione con riguardo alle disposizioni processuali introdotte dal decreto legge. Iniziando l’esame dalle norme introdotte in maniera autonoma dal Parlamento, si segnala innanzi tutto la previsione nel primo comma dell’art. 101 c.p.p. dell’obbligo per il pubblico ministero e la polizia giudiziaria di informare la persona offesa, al momento dell’acquisizione della notizia di reato (e si badi bene: di qualsiasi reato non lesivo di interessi diffusi), della facoltà di nominare un difensore di fiducia e del diritto di accedere al patrocinio a spese dello Stato (diritto che, ai sensi delle modifiche apportate dal decreto – e confermate in sede di conversione -, spetta alla persona offesa dei reati di cui agli artt. 572, 583 bis e 612 bis c.p. a prescindere dalle condizioni di reddito). In proposito va rilevato che, siccome l’acquisizione della notizia del reato – soprattutto quando si tratta di reati procedibili d’ufficio – non necessariamente consegue alla presentazione di una denuncia o di una querela da parte della persona offesa, per l’adempimento del nuovo obbligo potrebbe rendersi necessaria la notifica alla stessa di un apposito atto contenente gli avvisi di cui sopra. Qualora invece la notizia venga acquisita direttamente dalla persona offesa, sembra necessario che nel verbale di ricezione della sua denunzia o querela venga dato conto della comunicazione dei menzionati avvisi. Va peraltro segnalato che la norma tace sulle eventuali conseguenze dell’omissione dell’avviso di cui si è detto, di cui sarà dunque necessario valutare la rilevanza ai sensi degli artt. 177 e ss. c.p.p.Di notevole rilevanza è poi l’inserimento degli atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p. nel catalogo dei reati dell’art. 266 c.p.p. per cui è possibile procedere ad intercettazioni telefoniche ed ambientali. Totalmente inedita è anche la previsione nell’art. 282 quater c.p.p. dell’obbligo del responsabile del servizio socio-assistenziale territoriale presso cui l’imputato si è sottoposto con esito positivo ad un programma di prevenzione della violenza di comunicare la circostanza al pubblico ministero e al giudice per le valutazioni imposte dal secondo comma dell’art. 299 c.p.p. Disposizione, questa non poco oscura e dal non agevole coordinamento sistematico. Al di là dell’indiscriminata estensione della norma all’imputato di qualsiasi reato, non è chiaro il significato del generico dovere di comunicazione al “giudice”, atteso che quest’ultimo, ad esempio, nella fase delle indagini preliminari, non è titolare di un indiscriminato potere di procedere motu proprio alla revoca o sostituzione della misura cautelare, necessitando di un impulso in tal senso da parte del pubblico ministero o dell’indagato, salvo che non ricorrano le specifiche condizioni descritte nel terzo comma dell’art. 299 c.p.p. Sembra peraltro da escludere che il potenziale inserimento anche del giudice delle indagini preliminari tra i destinatari della comunicazione valga ad ampliare il ventaglio delle ipotesi in cui questi è tenuto a rivalutare d’ufficio la situazione cautelare dell’indagato, trattandosi di conclusione che avrebbe richiesto indici normativi più espliciti. Ed allora delle due l’una: o si ritiene che il giudice delle indagini preliminari, ricevuta la comunicazione, debba trasmetterla al pubblico ministero (che peraltro l’ha già ricevuta) per le sue valutazioni ovvero deve concludersi che prima dell’esercizio dell’azione penale l’unico destinatario della comunicazione sia il pubblico ministero. Sotto altro profilo sembrerebbe che, attesa la collocazione del nuovo periodo normativo, l’obbligo di comunicazione riguardi esclusivamente l’imputato sottoposto alle misure di cui agli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p. In realtà la novella ambiguamente tace sul punto, ma deve evidenziarsi come risulterebbe irragionevole concludere che l’adempimento non debba considerarsi esteso anche al caso di colui che è sottoposto, ad esempio, all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria o addirittura a misure custodiali, qualora anche in tale situazione egli abbia comunque potuto frequentare un programma di prevenzione della violenza. Ciò che invece appare fuor di dubbio è che l’esito positivo del programma non comporta l’automatico dovere del giudice di revocare o sostituire la misura, costituendo tale circostanza un elemento oggetto di valutazione al pari di qualsiasi fatto sopravvenuto nel corso dell’esecuzione della misura cautelare. Nulla dice la norma, invece, sull’eventuale dovere del giudice, una volta ricevuta la comunicazione, di adottare un provvedimento – nei casi in cui i poteri ex art. 299 comma 2 c.p.p. possono essere esercitati d’ufficio – per motivare il difetto dei presupposti per modificare il regime cautelare. Eventualità che peraltro, proprio in assenza di una espressa previsione in tal senso, sembra da escludersi, il che porta inevitabilmente ad interrogarsi sull’effettiva funzionalità e sulla stessa necessità della nuova previsione.Sempre in maniera autonoma il Parlamento ha coerentemente ampliato il catalogo dei reati per il cui accertamento è imposto alla polizia giudiziaria, dal comma 1 ter dell’art. 351 c.p., l’obbligo di farsi assistere da un esperto di psicologia o psichiatria infantile per assumere a sommarie informazioni un minore. Le fattispecie aggiunte sono quelle di maltrattamenti in famiglia e atti persecutori. Nel caso di allontanamento d’urgenza dalla casa familiare ad opera della polizia giudiziaria (art. 384 bis c.p.p.) la legge di conversione ha poi configurato nel quinto comma dell’art. 449 c.p.p. una speciale ipotesi di giudizio direttissimo, prevedendo che su disposizione del pubblico ministero la stessa polizia giudiziaria provveda a citare l’imputato per il giudizio speciale e per «la contestuale convalida dell’arresto» entro le successive quarantotto ore, salvo che ciò pregiudichi gravemente le indagini. La disposizione sostanzialmente estende la disciplina del primo comma dell’art. 449 c.p.p. (dove probabilmente avrebbe potuto trovare una più corretta collocazione) al destinatario della nuova misura precautelare, della quale viene sostanzialmente determinata la (forse discutibile) assimilazione all’arresto in flagranza. Nulla avendo eccepito il legislatore, deve ritenersi che trovi applicazione il disposto del secondo comma del citato art. 449 e pertanto, qualora “l’arresto” non venga convalidato, il giudice provvederà a restituire gli atti al pubblico ministero, salvo, qualora quest’ultimo e l’imputato vi consentano, procedere comunque al giudizio direttissimo. Infine la legge di conversione – sempre nell’ottica di una più incisiva repressione della violenza domestica – ha sottratto alla competenza del giudice di pace le fattispecie di lesioni personali volontarie perseguibili a querela quando il reato è commesso ai danni del convivente ovvero di uno dei soggetti indicati nel secondo comma dell’art. 577 c.p. (il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre adottivi, il figlio adottivo, l’affine in linea retta). Ne consegue che il reato di lesioni personali aggravato perché commesso dall’ascendente o dal discendente (art. 585 in relazione all’art. 577 comma 1, n. 1 c.p.) continua, come in passato, ad appartenere alla competenza del giudice di pace ex art. 582 comma 2 c.p. (Sez. 5, n. 8121 del 14 febbraio 2007, Asquino e altro, in motivazione). Il legislatore non ha configurato alcuna disposizione transitoria, sembrerebbe dunque doversi concludere – in ossequio al principio del tempus regit actum – che la nuova regola sulla competenza operi con esclusivo riferimento ai procedimenti iscritti successivamente all’entrata in vigore della legge di conversione. Venendo ora alle modifiche apportate dalla legge di conversione alle norme introdotte dal d.l. n. 93/2013, innanzi tutto vengono in conto quelle che riguardano la già menzionata misura precautelare dell’allontanamento d’urgenza dalla casa familiare. Intervenendo nel tessuto dell’art. 384 bis c.p.p. configurato dal decreto, il legislatore ha precisato che l’autorizzazione preventiva del pubblico ministero alla polizia giudiziaria debba essere scritta ovvero, quando resa oralmente, confermata successivamente per iscritto o per via telematica. Tra i presupposti che legittimano l’adozione della misura, oltre al pericolo per la vita e l’integrità fisica della vittima del reato è stato poi inserito anche quello per l’integrità psichica della medesima. Inoltre, oltre all’applicabilità della disciplina prevista per l’arresto dagli artt. 385 e ss. è stata estesa anche quella relativa all’acquisizione della querela proposta anche in forma orale dettata per l’arresto in flagranza dal terzo comma dell’art. 381 c.p.p., precisandosi in proposito che della querela orale deve essere dato atto nel verbale di allontanamento. Infine la legge di conversione ha opportunamente esteso il divieto per la polizia giudiziaria di assumere dall’indagato sommarie informazioni utili per le investigazioni – previsto dall’art. 350 comma 1 c.p.p. nel caso in cui questi si trovi in stato di arresto o di fermo – anche qualora lo stesso sia stato sottoposto alla misura dell’allontanamento d’urgenza (questa sembra invero l’interpretazione più aderente all’intenzione del legislatore e coerente alla menzionata assimilazione all’arresto della nuova misura precautelare, ancorchè la formula impiegata possa risultare in proposito ambigua, atteso che per legare alla locuzione originaria del primo comma dell’art. 350 – «persona… che non si trovi in stato di arresto o di fermo» – il nuovo periodo è stata utilizzata la particella congiuntiva “e” anzichè quella avversativa “o”, come sarebbe stato più coerente). Con riguardo all’allontanamento dalla casa familiare di cui all’art. 282 bis c.p.p., il Parlamento ha contenuto l’inclusione del delitto di lesioni personali tra quelli previsti dal sesto comma della norma citata per cui è possibile procedere all’applicazione della misura anche in difetto dei limiti di pena previsti dall’art. 280 c.p.p. per l’adozione di misure coercitive, alle sole ipotesi in cui il reato è procedibile d’ufficio o comunque aggravato. Contestualmente, nel caso in cui la misura venga applicata per uno dei reati elencati nel citato sesto comma, ha disposto che la sua esecuzione possa avvenire anche con le modalità previste dall’art. 275 bis c.p.p. per garantire il rispetto degli arresti domiciliari e cioè con «mezzi elettronici o altri strumenti tecnici». Si tratta dell’estensione, assai enfatizzata dai media, dell’utilizzo del c.d. “braccialetto elettronico” anche alla misura pensata prevalentemente per arginare la pericolosità degli autori di reati violenti di ambientazione domestica. Il rinvio che realizza tale estensione è peraltro operato, come accennato, «alle modalità di controllo previste dall’art. 275 bis», formula assai ambigua, che non chiarisce se lo stesso riguardi anche i presupposti per il ricorso al “braccialetto” definiti dalla disposizione da ultima citata e, soprattutto, se sia necessario il consenso del soggetto cautelato, pure previsto dalla norma oggetto di rinvio. In tal senso è appena il caso di evidenziare come la genericità del rinvio offra il fianco a potenziali difficoltà nell’applicazione della disciplina dell’art. 275 bis, la quale – è bene ricordarlo – prevede l’accettazione del controllo elettronico come condizione per la sostituzione della custodia carceraria con gli arresti domiciliari. In breve, se non presta il consenso al “braccialetto” – peraltro necessario per le modalità invasive del controllo che la sua applicazione comporta – l’imputato non può accedere al regime cautelare di favore ed è costretto a rimanere in carcere, ma si tratta di un’alternativa difficilmente esportabile nell’ipotesi in cui il controllo elettronico dovrebbe essere adottato nei confronti di soggetto cui viene applicata in prima battuta la misura di cui all’art. 282 bis c.p.p. con le modalità illustrate. Nel recepire l’inedito obbligo, istituito dal decreto nel comma 2 bis dell’art. 299 c.p.p., di informare il difensore della persona offesa (o quest’ultima se non assistita da un legale) e i servizi socio-assistenziali della sostituzione o della revoca delle misure cautelari previste dagli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p., il Parlamento lo ha esteso anche all’ipotesi in cui oggetto della richiesta siano le misure custodiali (artt. 284, 285 e 286 c.p.p.) o quella del divieto od obbligo di dimora (art. 282 c.p.p.). Modifica che restituisce razionalità alla previsione e che è stata accompagnata dall’ulteriore opportuna precisazione che la comunicazione deve essere effettuata dalla polizia giudiziaria. Peraltro qualche problema potrebbe ravvisarsi nel caso della revoca della custodia cautelare in carcere, provvedimento al cui esecuzione è demandata al personale di polizia penitenziaria, giacchè non è chiaro se l’adempimento in questione possa ritenersi rientrare nelle competenze di polizia giudiziaria del corpo. Analoga estensione è stata operata per l’obbligo di notificazione al difensore della persona offesa o a quest’ultima delle richieste di revoca o sostituzione della misura cautelare presentate ai sensi dei commi 3 o 4 bis dell’art. 299 c.p.p. In proposito la legge di conversione ha peraltro mantenuto la previsione per cui onerato dell’incombente è, a pena di inammissibilità della richiesta, lo stesso richiedente. Si è peraltro precisato (ancorchè singolarmente solo nel comma 3 dell’art. 299 e non anche nel comma 4 bis) che entro due giorni dalla notifica la persona offesa ha facoltà di sottoporre al giudice investito della richiesta memorie ex art. 121 c.p.p., termine decorso il quale comunque lo stesso giudice procede. In tal modo si è definitivamente chiarito che la ratio della previsione è quella di garantire la possibilità di instaurare un inedito contraddittorio con la vittima del reato all’interno dell’incidente cautelare. Sembra peraltro da escludersi, stante la tassatività dei mezzi di impugnazione e il silenzio della legge sul punto, che alla persona offesa sia attribuito anche il diritto di appellare la decisione del giudice, mentre non è stato stabilito alcun termine entro il quale questi deve pronunziarsi sull’ammissibilità della richiesta in difetto della prevista notifica, ancorchè il fatto che l’obbligo di notifica debba essere adempiuto «contestualmente» alla presentazione della richiesta sembra lasciar intendere che quest’ultima debba essere dichiarata immediatamente inammissibile se non corredata della prova dell’avviso alla parte offesa o, quantomeno, dell’avvio della procedura di notifica. Il che peraltro appare difficilmente compatibile con la proposizione dell’istanza ex art. 299 c.p.p. nel corso, ad esempio, dell’interrogatorio di garanzia o dell’udienza di convalida. Analoghe riserve potrebbero riguardare anche la richiesta presentata dall’imputato in udienza, ma in tal caso la configurazione in forma specifica dell’obbligo di notifica nel comma 4 bis dello stesso art. 299 – che espressamente disciplina l’ipotesi dell’istanza avanzata nella fase processuale, ma fuori udienza – lascerebbero propendere per la soluzione negativa, apparendo peraltro ragionevole che il legislatore abbia ritenuto in tale fattispecie non onerare ulteriormente l’imputato, giacchè la persona offesa ritualmente citata o è presente all’udienza – personalmente o tramite il proprio difensore – o comunque deve essere considerata tale. Sempre con riguardo agli obblighi di informazione della persona offesa, quelli introdotti dal decreto in caso di presentazione della richiesta di archiviazione e della notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, sono stati estesi, rispettivamente, a tutti i reati commessi con violenza alla persona e a quello di atti persecutori. E per i procedimenti ad oggetto quest’ultimo reato la legge di conversione ha altresì esteso il limite alla proroga del termine delle indagini preliminari di cui al comma 2 ter dell’art. 406 c.p.p., che già il decreto aveva esteso ai procedimenti per il reato di maltrattamenti in famiglia.

Redattore: Luca Pistorelli

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