Misure cautelari interdittive e responsabilità degli enti (d.lgs. 231/2001)

di Giorgio Fidelbo
Consigliere della Corte di Cassazione


Consiglio Superiore della Magistratura – Ufficio per la Formazione Decentrata 

Distretto di Genova -Magistratura togata, in collaborazione con il  Consiglio dell’Ordine di Genova e La Camera Penale Regionale Ligure 

CONVEGNO SUL TEMA La responsabilità degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001 – GENOVA, 20 aprile 2012.


La fase cautelare nel processo a carico degli enti: applicazione delle misure cautelari interdittive e valutazione del modello organizzativo.

I

Il procedimento applicativo: a) richiesta del pubblico ministero.

Il procedimento applicativo delle misure cautelari è strutturato sul modello delineato dal codice di procedura, con alcune importanti deroghe. Conformandosi alla normativa del codice, l’art. 45 prevede che sia il pubblico ministero a richiedere l’adozione delle misure cautelari, escludendo così ogni iniziativa officiosa da parte del giudice ed accogliendo il principio della domanda cautelare (). L’organo dell’accusa deve presentare al giudice gli elementi su cui la richiesta si fonda, compresi quelli a favore dell’ente e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. Deve trattarsi, ovviamente, di una domanda motivata, in cui il pubblico ministero rappresenti il suo punto di vista in relazione alla sussistenza dei gravi indizi di responsabilità dell’ente e del periculum in mora così come indicato dall’art. 45. L’ordinanza del giudice che non fosse preceduta da una richiesta motivata sarebbe comunque affetta da nullità assoluta, anche in presenza di tutte le condizioni previste dalla legge per l’emissione di un provvedimento cautelare ().

L’art. 45 ha ripreso letteralmente le espressioni adoperate nell’art. 291 c.p.p., prevedendo che il pubblico ministero debba presentare al giudice anche gli elementi a favore dell’ente. Con riferimento alla disposizione del codice la dottrina ha chiarito che con tale locuzione devono intendersi tutti gli elementi rilevanti per la situazione cautelare dell’imputato, includendovi non solo i dati in grado di incidere favorevolmente sulla responsabilità, come ad esempio gli aspetti della gravità degli indizi e la qualificazione del fatto, ma anche le informazioni che possono comunque rilevare in ordine all’accertamento delle esigenze cautelari e alla personalità dell’imputato (). Da parte sua la giurisprudenza ritiene che nella nozione di elementi a favore rientrino soltanto gli elementi di natura oggettiva e di fatto aventi rilievo concludente, mentre restano escluse le mere posizioni difensive negatorie, le prospettazioni di tesi alternative e gli assunti assertori e defatiganti (). Nel procedimento cautelare a carico delle persone giuridiche si ripropone il problema di individuare un punto di equilibrio tra le istanze garantiste della difesa e le esigenze efficientiste dell’accusa, che non vuole essere costretta a compiere una intempestiva discovery nei confronti della controparte: tuttavia, il diverso procedimento applicativo delle misure interdittive, con la previsione di un contraddittorio anticipato rispetto all’emanazione del provvedimento, dovrebbe portare ad una sdrammatizzazione di questo problema. D’altra parte, deve rilevarsi che la complessità dei presupposti e della fattispecie oggetto della richiesta cautelare porta ad un ampliamento dello spazio riconosciuto agli “ elementi a favore ” dell’ente, che non riguarderanno solo il reato presupposto, ma tutti i requisiti del modello imputativo della responsabilità dell’ente, compresi i fatti che possono condurre ad escludere l’applicazione della misura interdittiva, quale, ad esempio, l’esistenza di un interesse esclusivo dell’autore del reato (art. 5 comma 2) o di un danno patrimoniale di particolare tenuità (art. 12 lett. b).

Perde di rilievo la disposizione che impone la presentazione delle deduzioni e delle memorie difensive, anch’essa ripresa dall’art. 291 c.p.p., dal momento che la misura interdittiva viene disposta a seguito di un’apposita udienza, in cui la difesa potrà non solo depositare le memorie, comprese quelle già presentate al pubblico ministero, ma illustrare la propria posizione e contraddire la tesi accusatoria. Inoltre, la previsione di un’udienza in cui il giudice, sentite le parti, emette il provvedimento cautelare, consente alla difesa dell’ente di presentare direttamente gli eventuali elementi raccolti nel corso delle indagini difensive a norma dell’art. 391-octies c.p.p.

b) giudice competente.

Anche sotto il profilo dell’individuazione del giudice legittimato alla applicazione della misura cautelare, l’art. 47 non propone novità rispetto al sistema codicistico, visto che “ assegna il compito della deliberazione al giudice che procede, ovvero, in fase di indagini, al giudice delle indagini preliminari ” (). L’opportuno richiamo all’art. 91 del d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271, consente di completare le differenti ipotesi di competenza a seconda dello stato del procedimento: così, nel corso degli atti preliminari al dibattimento il giudice della cautela sarà il tribunale, in composizione monocratica o collegiale a seconda dei casi; dopo la pronuncia della sentenza e prima della trasmissione degli atti a norma dell’art. 590 c.p.p., provvederà sulle richieste di misure cautelari il giudice che ha emesso la sentenza; durante il ricorso per cassazione sarà competente il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato.

Al giudice così individuato l’art. 47 affida la competenza anche in materia di revoca delle misure e di modifica delle loro modalità esecutive nonché nei casi di sospensione e di sostituzione delle stesse a norma degli artt. 49 e 50, sebbene manchi una espressa disposizione al riguardo ().

È stato posto il problema dell’applicabilità in questo procedimento dell’art. 291 comma 2 c.p.p., che conferisce al giudice incompetente il potere di disporre comunque la misura cautelare richiestagli, purché sussista l’urgenza di soddisfare le esigenze cautelari (): sebbene in linea astratta sia possibile sostenere il recupero di tale previsione attraverso l’apposita norma di chiusura rappresentata dall’art. 34, che richiama, in quanto compatibili, le disposizioni del codice di procedura, tuttavia deve rilevarsi come tra le esigenze cautelari considerate dall’art. 45 non figura né quella funzionale ad evitare l’inquinamento probatorio, né quella volta a contrastare il pericolo di fuga dell’imputato, ma viene prevista solo un’esigenza di prevenzione nella commissione di altri illeciti, per cui i casi in cui ricorrerà il presupposto dell’urgenza, espressamente richiesto dall’art. 291 comma 2 c.p.p., saranno sicuramente più rari. Inoltre, il particolare procedimento garantito disciplinato dall’art. 47, non sembra facilmente adattabile alle linee indicate dall’art. 291 comma 2 c.p.p., dal momento che il giudice potrà rilevare la propria incompetenza prima della fissazione dell’udienza in camera di consiglio. Probabilmente, la disposizione in esame è destinata a ricevere un’applicazione limitata ai casi in cui il giudice rilevi una causa di incompetenza nel corso dell’udienza, con conseguente compatibilità anche dell’art. 27 c.p.p., che impone il rinnovo della misura da parte del giudice competente.

c) udienza e contraddittorio anticipato.

L’art. 47 comma 2 prevede che quando la richiesta di applicazione della misura cautelare sia presentata fuori udienza, ipotesi che comprende in primo luogo la fase delle indagini preliminari, il giudice debba procedere ai sensi dell’art. 127 c.p.p., in camera di consiglio, sentite le parti. Ricevuta la richiesta del pubblico ministero, il giudice fissa l’udienza in cui si discuterà dell’applicazione della misura, udienza alla quale partecipano, oltre al pubblico ministero, l’ente e il suo difensore, ai quali deve essere consentito il tempestivo esame della richiesta e degli elementi sui quali si fonda. Tra il deposito della richiesta e la data dell’udienza non può intercorrere un termine superiore a quindici giorni, ma si tratta di una prescrizione priva di sanzione “ se non nei limiti in cui l’art. 124 c.p.p. sanziona l’inadempimento da parte del magistrato degli obblighi di osservanza delle norme processuali ” (). L’udienza si svolge in camera di consiglio, con possibilità per le parti di presentare memorie e, soprattutto, di essere sentite, qualora decidano di comparire. Sono espressamente richiamate le disposizioni procedimentali dell’art. 127 c.p.p., con esclusione dei commi 7, 8 e 9 che dettano la disciplina relativa all’ordinanza camerale nonché ai profili delle impugnazioni e dell’inammissibilità dell’atto introduttivo. In ogni caso, lo svolgimento del procedimento conosce ritmi più serrati, in quanto i termini previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 127 c.p.p. sono ridotti rispettivamente a cinque e a tre giorni.

L’ente partecipa a questa udienza con il proprio rappresentante legale, a meno che questi sia imputato del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, nel qual caso l’ente potrà scegliere di nominare un rappresentante ad litem oppure di non essere rappresentato nel procedimento (vale al riguardo la disciplina sulla rappresentanza dell’ente nel procedimento su cui v. retro § 6.5-6.8). Peraltro, il rappresentante legale dell’ente, che abbia chiesto di essere sentito, ma sia legittimamente impedito, ha diritto al rinvio dell’udienza, secondo la previsione di cui al comma 4 dell’art. 127 c.p.p., che riconosce tale diritto all’imputato. Il richiamo alla procedura dell’udienza in camera in consiglio penalizzerebbe, invece, il difensore, il cui legittimo impedimento, secondo un orientamento giurisprudenziale assolutamente compatto, che riconosce rilievo all’impedimento del difensore solo nel dibattimento, non dà luogo al rinvio (). Si tratta di un’interpretazione aderente alla lettera dell’art. 127 c.p.p. e che trova applicazione consolidata anche nel procedimento davanti al tribunale del riesame di cui agli artt. 309 comma 8 e 324 comma 6 c.p.p., casi in cui l’effettività dell’intervento difensivo può essere assicurato semplicemente dai contributi scritti, in primo luogo dal ricorso e poi dalle memorie; invece, nel contraddittorio previsto dall’art. 47 la presenza del difensore è destinata a svolgere un ruolo diverso e più determinante. Infatti, non si tratta di un procedimento impugnatorio, con un provvedimento già formato da “ contestare ”: qui la partecipazione del difensore influisce direttamente sul momento formativo della prima decisione del giudice, con riferimento al controllo sulla sussistenza dei presupposti per l’emissione della misura interdittiva, alla scelta della tipologia da applicare e, infine, alle opzioni che possono portare l’ente ad evitare la misura stessa, prospettando la realizzazione degli adempimenti indicati dall’art. 17. Il richiamo pressoché integrale alla disciplina della procedura camerale delinea un contraddittorio “ leggero ”, in cui non esiste un diritto all’audizione, ma solo la facoltà di essere sentiti condizionata dalla comparizione delle parti all’udienza (), che non sembra attagliarsi perfettamente alle esigenze di un “ dibattito ” avente ad oggetto una misura cautelare. È auspicabile che la giurisprudenza, nella costruzione del nuovo modello di contraddittorio cautelare, si discosti dall’interpretazione rigorosa formatasi sull’art. 127 c.p.p., riconoscendo il diritto al rinvio dell’udienza anche in presenza di un legittimo impedimento del difensore e non solo nel caso — pacifico — in cui questi rappresenta l’ente ai sensi dell’art. 39 comma 4.

In ogni caso, il contraddittorio assume un ruolo centrale nella applicazione delle misure cautelari interdittive (). Nel sistema codicistico, come novellato dalla l. 8 agosto 1995, n. 332 e dai successivi interventi, l’applicazione delle misure cautelari, sia coercitive che interdittive, si snoda lungo due fasi: la prima inizia con la richiesta del pubblico ministero e si conclude con la decisione del giudice, che avviene al di fuori del contraddittorio con l’altra parte, dal momento che si tratta di misure che per essere efficaci devono, normalmente, essere eseguite “ a sorpresa ”; le garanzie del contraddittorio vengono, invece, in parte recuperate nella seconda fase, in cui il giudice per le indagini preliminari deve interrogare l’indagato sottoposto alla misura cautelare, con la presenza del difensore al quale deve essere dato avviso (). L’interrogatorio svolge una funzione prevalente di controllo e di difesa avente ad oggetto un provvedimento esecutivo: di controllo perché il giudice deve valutare se le condizioni di applicabilità e le esigenze cautelari che hanno giustificato il provvedimento permangono; di difesa in quanto l’interrogatorio rappresenta il primo contatto con il giudice e la prima occasione per l’imputato di contestare le tesi dell’accusa. Peraltro, la funzione eminentemente difensiva dell’interrogatorio previsto dall’art. 294 c.p.p. trova riscontro nella modifica che ha reso obbligatoria la partecipazione del difensore ().

È stato notato come l’interrogatorio di garanzia presenti limiti funzionali, dovuti a vuoti di regolamentazione e carenze di effettività, ad esempio in relazione alla omessa previsione del termine entro cui deve avvenire la notifica dell’avviso del deposito ai sensi dell’art. 293 c.p.p., omissione che rischia di farlo diventare un’inutile formalità, in quanto se la difesa non è messa in grado di conoscere gli elementi posti a sostegno della richiesta del pubblico ministero e dell’ordinanza, sarà costretta a svolgere le deduzioni in sede di riesame; inoltre, analoghi limiti sono stati registrati in rapporto alla possibilità per il pubblico ministero di non essere presente all’interrogatorio, con scadimento del contraddittorio che viene a perdere l’interlocutore che ha prodotto gli elementi a carico, cui consegue l’effetto di mettere il giudice nella condizione o di confermare il provvedimento sulla base della richiesta originaria del pubblico ministero, ovvero di modificare o revocare la misura sulla base di quanto dedotto dalla difesa, rinunciando a sentire il pubblico ministero.

La struttura bifasica del procedimento applicativo delle misure viene superata dalle disposizioni contenute nell’art. 47 commi 2 e 3, in quanto introducono il contraddittorio in una fase antecedente all’emanazione del provvedimento coercitivo, che in questo modo perde le caratteristiche di “ atto a sorpresa ” (). Qui il contraddittorio non è differito, non segue una decisione già assunta, ma è anticipato in funzione della stessa decisione circa l’applicazione della misura richiesta. Soltanto dopo aver sentito le parti contrapposte il giudice è in grado di pronunciare una decisione che deve prendere in esame una serie di parametri richiesti dalla complessa fattispecie oggetto dell’accertamento incidentale, in quanto “ la dialettica tra le parti costituisce lo strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che può avere conseguenze particolarmente incisive sulla vita della persona giuridica; in questo modo, la richiesta cautelare del pubblico ministero viene a misurarsi con la prospettazione di ipotesi alternative dirette a paralizzare o attenuare l’iniziativa accusatoria, con l’effetto di ampliare l’orbita cognitiva del giudice e di evitare i rischi di una decisione adottata sulla scorta del materiale unilaterale ” (). È la stessa natura dell’ente a giustificare il ricorso al previo contraddittorio in vista della decisione sulla domanda del pubblico ministero.

Piuttosto, il contraddittorio anticipato previsto nel d.lgs. n. 231/2001 presenta forti affinità con l’interrogatorio che deve precedere la decisione sulla richiesta di sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio, di cui all’art. 289 comma 2, c.p.p. (), che può essere indicato come il diretto “ ascendente ” dell’art. 47. In entrambi gli istituti, infatti, la collocazione preventiva rispetto alla assunzione della misura si giustifica (anche) in relazione alla necessità di consentire al giudice la valutazione di elementi tendenzialmente estranei all’oggetto principale della domanda cautelare. Con riferimento all’art. 289 comma 2 c.p.p., infatti, la Corte costituzionale ha chiarito che la ratio della scelta è rintracciabile “ nell’esigenza di verificare anticipatamente che la misura della sospensione dall’ufficio o dal servizio non rechi, senza effettiva necessità, pregiudizio alla continuità della pubblica funzione o del servizio pubblico ” (), con ciò addossando al giudice il compito di operare una valutazione inerente all’interesse pubblico sul quale la misura interdittiva è destinata potenzialmente ad incidere, cioè un tipo di accertamento che nulla ha a che fare con le esigenze di garanzia dell’imputato, se non indirettamente, nel senso che alla positiva verifica del pregiudizio nello svolgimento della funzione amministrativa consegue l’inapplicabilità della misura cautelare interdittiva. È tuttavia evidente che l’interrogatorio non svolga unicamente tale funzione ed infatti la stessa decisione riconosce che l’interrogatorio preventivo ha ampliato la sfera delle garanzie dei soggetti a favore dei quali è destinato ad operare. D’altra parte, il richiamo puntuale alle modalità di cui agli artt. 64 e 65 c.p.p. testimonia della funzione certamente di “ tutela ” assegnata a questo istituto, confermata dalla giurisprudenza di legittimità che ricostruisce come una ipotesi di nullità di ordine generale a regime intermedio il mancato svolgimento dell’interrogatorio, in quanto omissione che lede il diritto di difesa ().

Questa dicotomia funzionale si ritrova anche nell’udienza preventiva di cui all’art. 47, in cui il contraddittorio non ha solo una funzione difensiva, ma caratterizza il procedimento decisionale del giudice. Sicuramente, il diritto di difesa dell’ente-imputato risulta garantito in maniera più efficace, in quanto gli si riconosce la facoltà di prendere conoscenza degli elementi a suo carico — nonché degli eventuali elementi a favore — presentati dal pubblico ministero e, soprattutto, gli viene offerta la possibilità di partecipare in maniera attiva ad un momento fondamentale della procedura cautelare, in cui la decisione del giudice non si è ancora formata: è nell’udienza, infatti, che l’ente può controbattere tempestivamente e con cognizione di causa alle tesi accusatorie e offrire eventuali elementi contrari (). La circostanza che nell’udienza ex art. 127 c.p.p. non vi sia spazio istruttorio, con la conseguenza che il confronto critico tra le parti finisce per essere limitato da “ un patrimonio cognitivo precostituito ” (), non necessariamente reca un pregiudizio all’imputato-ente, il quale anzi, attraverso il ricorso alle indagini difensive, comprese quelle c.d. preventive, ha la possibilità di portare all’attenzione del giudice elementi nuovi a suo favore. Peraltro, le prassi applicative registrate fino ad oggi sembrerebbero essere a favore di un’estensione dei poteri istruttori del giudice della cautela, in questa udienza, dal momento che il g.i.p. ha quasi sempre disposto perizie e acquisiti pareri tecnici per la valutazione dei modelli adottati dall’ente ().

D’altra parte, un controllo anticipato sulla vicenda cautelare dà una forte connotazione in senso giurisdizionale alla decisione, consentendo al giudice di formarsi un proprio convincimento solo dopo aver sentito le parti, in contraddittorio tra loro, in una posizione di simmetrica parità.

Tuttavia, accanto ad una imprescindibile funzione difensiva, il contraddittorio preventivo di cui all’art. 47, al pari dell’interrogatorio previsto dall’art. 289 comma 2 c.p.p., rivela un’attitudine al “ riequilibrio ” di esigenze in parte contrapposte, che lo avvicina ad alcune forme di contraddittorio amministrativo, caratterizzate da una prevalente funzione “ collaborativa ” nella ponderazione dei diversi interessi. In realtà, è nella natura del contraddittorio, quale metodo processuale di decisione, offrire al giudice gli elementi per la scelta migliore, nel momento stesso in cui le parti esercitano i propri diritti difensivi. Ma in questo caso l’apporto collaborativo si manifesta in maniera più eclatante, in quanto con la decisione sulla domanda cautelare il giudice oltre a compiere la verifica della gravità indiziaria degli elementi che compongono l’illecito derivante dal reato e ad accertare la mancanza di quei fatti idonei ad escludere l’applicazione delle misure interdittive, che rappresentano i passaggi necessari della sua decisione, può essere chiamato a valutazioni tendenzialmente estranee al tema principale, come quelle relative alla necessità di consentire la prosecuzione dell’attività dell’ente nei cui confronti risulti applicabile una misura che ne paralizzi l’attività, nominando il commissario giudiziale, oppure concernenti la scelta sulla sospensione dell’applicazione delle misure cautelari al fine di consentire all’ente di porre in essere quelle condotte “ riparatorie ” in grado di escludere le sanzioni interdittive a norma degli artt. 17 e 49. Questi ultimi aspetti della decisione necessitano di un apporto informativo che, in larga misura, può essere fornito, almeno in prima battuta, soltanto dall’ente e nel suo stesso interesse. In quella che può essere impropriamente definita la “ fase eventuale ” del contraddittorio, l’aspetto collaborativo prevale su quello difensivo, nel senso che la garanzia per la migliore decisione del giudice mai come in questo caso è offerta dalle informazioni acquisibili nell’udienza camerale. Questa tendenziale attitudine collaborativa del contraddittorio si giustifica dinanzi a un tipo di decisione in cui il giudice non accerta diritti, ma compie valutazioni vicine all’opportunità amministrativa, essendo chiamato a decidere se l’interruzione di un pubblico servizio può provocare un grave pregiudizio alla collettività ovvero può causare rilevanti ripercussioni sull’occupazione o, ancora, a valutare l’idoneità di una proposta dell’ente ad eliminare le carenze organizzative che hanno determinato la commissione del reato e a prevenire illeciti della specie di quello per cui si procede. Si tratta di valutazioni strategiche nell’impianto della normativa e che possono trovare sbocco proprio nell’udienza di cui all’art. 47. La dottrina più attenta ha segnalato i rischi derivanti “ dalla tendenza a scorgere nel contraddittorio, anziché la traduzione in termini processuali di un antagonismo di interessi, un momento di collaborazione delle parti al raggiungimento della verità ” (), ma in questo caso la prevalenza del momento collaborativo si innesta in una fase eventuale del contraddittorio, in cui l’oggetto non è rappresentato dalla regiudicanda cautelare. Ovviamente il giudice non potrà trarre alcun tipo di valutazione negativa dall’atteggiamento di un ente che non manifesti alcun interesse alla collaborazione in questa fase eventuale.

Risulta evidente come la complessità della “ fattispecie cautelare ” renda estremamente articolato il percorso che deve compiere il giudice, sulla base di una cognizione indiziaria e quindi sommaria, per giungere a decidere sulla richiesta del pubblico ministero e come sia essenziale il ruolo del contraddittorio preventivo, al quale può essere riconosciuta una doppia funzione, difensiva e collaborativa insieme, in dipendenza del tipo di valutazione e di accertamento richiesti al giudice.

Testimonia di questa doppia natura la stessa struttura del procedimento: il richiamo alle modalità di cui all’art. 127 c.p.p. impone una “ istruttoria ” senza esami diretti, in cui l’audizione compete al giudice; d’altra parte il contraddittorio è eventuale, nel senso che non è necessaria la partecipazione delle parti, alle quali difesa e contraddittorio sono riconosciuti come facoltà e, correlativamente, come oneri. Prevale un modello “ liberistico congeniale allo stile accusatorio ” (), che lascia alle parti la scelta su come e quando difendersi, la cui flessibilità ben si adatta alle diverse funzioni assegnate al contraddittorio.

Sono state avanzate perplessità sulla idoneità del contraddittorio anticipato a soddisfare le esigenze di funzionalità dell’intervento cautelare, tenuto conto che, venuta meno la struttura a sorpresa dell’istituto, si sarebbero dovuti prevedere strumenti anticipatori, idonei a garantire l’efficacia dei provvedimenti interdittivi dal pericolo di condotte dirette a vanificarne gli obiettivi (). Il confronto è con l’ordinamento francese che nel procedimento per l’applicazione delle misure cautelari personali prevede, accanto al debat contradictoire, una serie di meccanismi processuali rivolti a salvaguardare l’effetto “ sorpresa ” che resta connaturale alle finalità istruttorie, tra cui i mandati del juge d’instruction, con cui l’imputato, in via precautelare, viene posto a disposizione del giudice che conduce l’inchiesta, nonché l’incarceration provisoire, che viene disposta qualora l’udienza debba essere differita, anche su richiesta dell’imputato che voglia preparare la difesa (); d’altra parte, anche in alcune proposte di modifica della procedura cautelare la previsione del contraddittorio anticipato è completata da forme di accompagnamento coattivo dirette ad assicurare la presenza dell’imputato all’udienza (). Si tratta, tuttavia, di aspetti tendenzialmente estranei al sistema delle cautele previsto dal d.lgs. n. 231/2001, dove l’applicazione delle misure interdittive non deve necessariamente avvenire “ a sorpresa ”, non solo perché nei confronti dell’ente non valgono le esigenze cautelari relative al pericolo di fuga e all’inquinamento probatorio, ma anche perché, come si è visto, l’incontro delle parti davanti al giudice è funzionale anche a far acquisire una serie di informazioni al giudice utili per la stessa decisione cautelare, soprattutto con riferimento a quegli esiti che possono portare ad una sospensione dell’applicazione delle misure. Eventuali esigenze cautelari, soprattutto se collegate al pericolo per l’acquisizione o la genuinità della prova o al pericolo di fuga, potranno essere più tempestivamente soddisfatte ricorrendo alle misure cautelari reali a carico dell’ente.

 

 

d) interrogatorio di garanzia.

 

Resta da stabilire se l’interrogatorio di garanzia di cui all’art. 294 c.p.p. sia o meno compatibile con un sistema cautelare che prevede l’emissione della misura solo dopo che il giudice ha sentito le parti.

Questione analoga si è posta con riferimento all’art. 289 comma 2 c.p.p., che, come si è visto, impone che la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio sia disposta dopo l’interrogatorio dell’indagato. In quel caso, ammettere la necessità di un doppio interrogatorio a distanza di pochi giorni non sembra rappresentare un eccesso di garanzia, tenuto conto che il procedimento di cui all’art. 289 comma 2 c.p.p. ha delineato un contraddittorio anticipato “ monco ”, in quanto non prevede la possibilità per l’imputato di esaminare, prima di essere sentito, la richiesta del pubblico ministero e gli elementi sui quali si fonda: ne consegue, che la garanzia rappresentata dal successivo interrogatorio ex art. 294 c.p.p. consente all’imputato di recuperare quelle opportunità difensive che non gli sono state offerte prima ().

Diverso il discorso in relazione al modello procedimentale dell’art. 47, che invece espressamente prevede che l’imputato-ente partecipi al contraddittorio in maniera consapevole, avendo piena cognizione sia della domanda cautelare presentata dall’organo di accusa, sia degli elementi che la sostengono. Qui lo scarto di valore tra il contraddittorio anticipato e l’interrogatorio di garanzia è davvero minimo e non consente di ritenere cumulabili i due istituti: la garanzia offerta da un contraddittorio anticipato pieno appare più che sufficiente e la previsione di un successivo interrogatorio rappresenterebbe un inutile appesantimento processuale, senza alcun riscontro in termini di supplemento di garanzia. D’altra parte, se è vero che, richiamando le modalità del procedimento camerale, l’art. 47 non prevede lo svolgimento di un vero e proprio interrogatorio nelle forme di cui agli artt. 64 e 65 c.p.p., tuttavia è altrettanto vero che il contraddittorio sulla domanda cautelare non potrà non avere ad oggetto la contestazione ipotizzata dal pubblico ministero. Semmai, la differenza più vistosa riguarda la funzione di verifica sulla permanenza delle condizioni di applicabilità delle misure e delle esigenze cautelari, che caratterizza l’interrogatorio di garanzia previsto dal codice di rito; ma si tratta di un tipo di controllo che si giustifica in relazione ad una misura applicata inaudita altera parte, i cui presupposti possono essere diversamente valutati grazie al contributo consapevole della difesa. Nel modulo costruito dall’art. 47 un successivo interrogatorio, a distanza di pochi giorni dall’adozione della misura, funzionale alla verifica della permanenza delle esigenze cautelari non sembra in grado di aggiungere alcuna ulteriore garanzia sostanziale. La preoccupazione di assicurare comunque una nuova valutazione delle esigenze cautelari resta affidata all’istituto previsto dall’art. 50, che impone al giudice l’obbligo di revocare, anche d’ufficio, la misura quando risultano mancanti, per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità, e che facoltizza le parti a richiedere la sostituzione nei casi in cui le esigenze cautelari risultino attenuate ovvero la misura non appaia più proporzionata all’entità del fatto o alla sanzione che si ritiene possa essere applicata in via definitiva.

e) ordinanza cautelare.

Sulla richiesta del pubblico ministero il giudice provvede con ordinanza, sia che accolga, sia che respinga la domanda. L’espresso richiamo alle disposizioni dell’art. 292 c.p.p. comporta l’applicazione dell’intera disciplina codicistica sull’ordinanza cautelare, compreso il sistema delle nullità, ma con alcuni adattamenti.

Per quanto riguarda la previsione di cui al comma 2 lett. a) dell’art. 292 c.p.p., circa la necessità di indicare le generalità dell’imputato, è evidente che la disposizione debba essere letta come riferita direttamente all’ente (e al suo legale rappresentante), sulla base dell’art. 35 che estende al soggetto collettivo la disciplina relativa all’imputato, in quanto compatibile, dovendosi escludere che possa essere riferita all’autore del reato da cui dipende l’illecito amministrativo, che semmai sarà menzionato nella descrizione sommaria del fatto, là dove il giudice dovrà rappresentare la complessa fattispecie dell’illecito imputato all’ente, il cui presupposto è costituito, appunto, dal reato posto in essere da una persona fisica, che peraltro può anche restare ignota ().

Nessun particolare problema per le altre disposizioni che sembrano perfettamente adattabili alla funzione dell’ordinanza emessa nei confronti dell’ente. In particolare, il giudice dovrà esporre le specifiche esigenze cautelari e gli indizi che, in concreto, giustificano la misura disposta, attenendosi ai diversi parametri richiesti dagli artt. 45 s.; inoltre, dovrà dare conto delle ragioni per le quali non sono stati ritenuti rilevanti gli elementi forniti dalla difesa, motivazione questa destinata ad acquistare particolare significato in un procedimento che vede l’attiva partecipazione del soggetto cui la misura è destinata.

Invece, deve ritenersi incompatibile la disposizione di cui alla lett. c-bis) del comma 2 dell’art. 292 c.p.p., là dove richiede l’esposizione delle ragioni per le quali le esigenze cautelari non possano essere soddisfatte con misure diverse dalla custodia cautelare; tuttavia, un obbligo motivazionale analogo a quello richiesto dalla norma da ultimo citata può farsi derivare dall’art. 46, che oltre a contenere un generico riferimento alla idoneità specifica della misura prescelta rispetto alle esigenze cautelari da garantire, prevede esplicitamente che la misura interdittiva più grave, cioè l’interdizione dall’esercizio dell’attività, possa essere disposta solo quando ogni altra misura risulti inadeguata. Si tratta di criteri che devono guidare la decisione del giudice e di cui questi non può non dare conto nella parte motiva dell’ordinanza.

Allo stesso modo non è compatibile neppure la disposizione di cui alla lett. d) dell’art. 292 c.p.p., che impone l’obbligo della fissazione della data di scadenza della misura applicata per evitare il pericolo di inquinamento probatorio, in relazione alle indagini da compiere, anche se, per ragioni completamente diverse, l’ordinanza cautelare applicata nei confronti dell’ente dovrà comunque contenere il termine di durata della misura ai sensi dell’art. 51.

È da ritenere la compatibilità della causa di nullità prevista dal comma 2-ter dell’art. 292 c.p.p., che sanziona l’omessa valutazione degli elementi a carico e a favore del destinatario del provvedimento.

Particolarmente importante appare il contenuto dell’ordinanza con riferimento alle modalità applicative della misura (art. 45 comma 2), in considerazione del fatto che il provvedimento può riguardare una parte dell’azienda o dell’attività. L’art. 14, infatti, prevede che le sanzioni debbano avere ad oggetto la specifica attività alla quale si riferisce l’illecito e, con riferimento al divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, consente che l’intervento inibitorio possa essere limitato a determinati tipi di contratto o a determinate amministrazioni (). Si tratta di una norma che detta i criteri di scelta delle sanzioni interdittive, ma che si rivolge anche al giudice della cautela, integrando i parametri della scelta fissati, in maniera più generale, dall’art. 46. Ed è difficile immaginare che su aspetti così rilevanti della decisione cautelare non vi debba essere un obbligo di motivazione ().

È pacifico che l’ordinanza debba recare la data e la sottoscrizione del giudice e dell’ausiliario che lo assiste, nonché il sigillo dell’ufficio (art. 292 comma 1, lett. e, e comma 2-bis c.p.p.); inoltre, essendo rivolta ad un ente, dovrà indicare anche la sede in cui il provvedimento deve essere eseguito.

Un profilo particolare che ha interessato la giurisprudenza è quello relativo ai limiti della redazione della motivazione per relationem agli atti o al provvedimento cautelare che ha riguardato l’imputato persona fisica autore del reato presupposto da cui è derivata la responsabilità dell’ente. Come è noto si tratta di una tecnica motivazionale che è ritenuta legittima a condizione che  il riferimento avvenga nei confronti di un atto valido del procedimento, che sia fornita la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto del provvedimento richiamato, che l’atto di riferimento sia conosciuto dall’interessato. Tuttavia, riguardo al procedimento cautelare ex art. 45 e seg. il richiamo per relationem all’ordinanza cautelare disposta nei confronti della persona fisica assolve all’onere motivazionale in misura limitata, dal momento che la fattispecie da prendere in considerazione al fine di valutare la sussistenza della gravità indiziaria a carico del soggetto collettivo non è coincidente con la fattispecie relativa all’autore del reato persona fisica, sicché la possibilità di una motivazione per relationem  a quella dell’ordinanza cautelare personale potrà concernere unicamente il presupposto dei gravi indizi di commissione del reato. Infatti, “è solo in rapporto a questa porzione della fattispecie complessa prevista dall’art. 45 d.lgs. 231/2001, che l’ordinanza applicativa delle misure coercitive personali può svolgere una funzione integrativa della motivazione, che sia coerente con la decisione cautelare riguardante il soggetto collettivo”. In sostanza la tecnica della motivazione per relationem  non trova automatica giustificazione nell’ordinanza che dispone una misura cautelare interdittiva nei confronti di una persona giuridica,  in quanto i presupposti e i requisiti necessari per l’accertamento della gravità indiziaria sono in parte differenti rispetto a quelli utilizzabili a carico della persona fisica e devono essere autonomamente individuabili.

f) adempimenti esecutivi.

Secondo l’art. 48 l’ordinanza che dispone una misura cautelare deve essere notificata all’ente a cura del pubblico ministero. Dalla data della notifica iniziano a decorrere i termini di durata della misura previsti dall’art. 51 comma 3. Si tratta delle stesse modalità esecutive previste dall’art. 77 per le sanzioni interdittive applicate a seguito di sentenza definitiva. In entrambi i casi l’effetto inibitorio, assoluto o parziale, sull’attività dell’ente acquista efficacia con la comunicazione del provvedimento eseguita attraverso il sistema delle notifiche.

Sulla base della norma generale di richiamo deve ritenersi applicabile l’art. 293 comma 3 c.p.p. che prevede che l’ordinanza, dopo la notifica, sia depositata nella cancelleria del giudice che l’ha emessa e che l’avviso del deposito sia notificato al difensore.

L’art. 84 prevede, infine, che il provvedimento applicativo della misura cautelare interdittiva sia comunicato, a cura della cancelleria del giudice che lo ha emesso, alle autorità che esercitano il controllo o la vigilanza sull’ente. La comunicazione è funzionale all’avvio di procedure parallele di controllo da parte dei soggetti che operano la vigilanza.

La sospensione delle misure cautelari.

Il ruolo centrale assegnato nel nuovo sistema sanzionatorio alla prevenzione trova la sua massima espressione nelle previsioni che escludono la responsabilità della persona giuridica se l’ente si è dotato di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi (artt. 6 e 7) (). Perché l’adozione dei modelli idonei spieghi l’effetto di escludere ogni forma di responsabilità dell’ente è necessario non solo che siano realizzate tutte le condizioni indicate dalla legge, compresa quella che presuppone la dimostrazione che la commissione del reato è dipesa dalla elusione fraudolenta dei controlli da parte dell’agente (art. 6 comma 1, lett. c), ma che i modelli siano stati posti in essere prima della commissione del fatto illecito; dopo l’illecito, invece, la funzione di prevenzione e di recupero alla legalità viene perseguita attraverso la previsione di comportamenti riparatori e ripristinatori che agiscono sulle sanzioni, ma che non fanno venir meno la responsabilità dell’ente. Si tratta di condotte che possono intervenire anche nel corso del processo e, con effetti parzialmente diversi, fino alla fase esecutiva.

Il sistema delineato dagli artt. 12 e 17 collega la riduzione della sanzione pecuniaria e l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive alla realizzazione delle condotte riparatorie prima dell’apertura del dibattimento. Se, invece, la condotta riparatoria è posta in essere tardivamente, cioè oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento, l’art. 78 prevede che il giudice dell’esecuzione possa operare la conversione della sanzione interdittiva definitiva in sanzione pecuniaria: in questo caso, il “ sollievo sanzionatorio ” è minore, in quanto alla sanzione pecuniaria applicata con la sentenza si aggiunge la sanzione pecuniaria che deriva dalla conversione della sanzione interdittiva.

Con riferimento alle sole sanzioni interdittive, l’art. 17 prevede che l’ente possa evitarne l’applicazione — ed essere assoggettato alle sole sanzioni pecuniarie — attraverso il risarcimento integrale del danno, la eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato, l’eliminazione delle carenze organizzative che hanno agevolato la commissione del reato, l’adozione e l’attuazione dei modelli organizzativi idonei a prevenire i reati, la messa a disposizione del profitto conseguito illecitamente. Solo la concorrenza di queste condizioni determina l’inapplicabilità delle sanzioni interdittive.

Questo meccanismo premiale in funzione preventiva è destinato a ricevere un forte impulso proprio nella fase cautelare. L’art. 49 prevede, infatti, la sospensione delle misure qualora l’ente chieda di poter realizzare gli adempimenti cui la legge condiziona l’esclusione delle sanzioni interdittive. In sostanza, l’ente, nei cui confronti è stata applicata una misura cautelare interdittiva, può richiedere al giudice la sospensione della misura per poter realizzare le condotte ripristinatorie indicate dall’art. 17, la cui corretta attuazione potrà avere come ulteriore effetto la revoca della misura nonché l’inapplicabilità, con l’eventuale sentenza di condanna, delle sanzioni interdittive.

Il giudice, dopo aver sentito il pubblico ministero, se accoglie la richiesta fissa, a carico dell’ente e a titolo di cauzione, una somma di denaro, disponendo la sospensione della misura in essere; la cauzione consiste nel deposito, presso la Cassa delle ammende, di una somma di denaro non inferiore alla metà della sanzione pecuniaria minima prevista per l’illecito per il quale si procede, ma è anche ammessa la prestazione di una garanzia ipotecaria oppure di una fideiussione solidale, in modo da evitare l’immobilizzo del contante. Con il provvedimento di sospensione il giudice indica il termine entro cui le condotte riparatorie devono essere realizzate.

La legge riconosce al giudice un potere discrezionale nella valutazione della richiesta di sospensione, ma non specifica su quali elementi valutativi il giudice è chiamato a decidere.

Anche nel silenzio della legge, deve ritenersi che l’ente, nel suo stesso interesse, non dovrà limitarsi a presentare una semplice richiesta di sospensione, ma dovrà indicare in maniera il più possibile dettagliata gli obiettivi che si propone, le condotte che intende porre in essere e le modalità della realizzazione, eventualmente allegando la documentazione relativa ai costi degli interventi e alla situazione economica della società. Ne consegue che il giudice, nel valutare la richiesta, dovrà limitarsi a verificarne l’idoneità rispetto alla piena attuazione degli obiettivi posti dall’art. 17, tenendo anche conto, ove possibile, delle concrete possibilità di realizzazione delle condotte, anche in relazione alla situazione economica dell’ente. Occorrerà, da un lato, evitare che l’ente presenti richieste di sospensione al solo fine dilatorio, dall’altro lato, però, si dovrà incoraggiare l’ente a porre in essere le condotte riparatorie, in quanto solo in questo modo si ottiene il recupero di legalità, che è il fine perseguito dal sistema.

Mentre la valutazione che deve compiere al momento della richiesta è di natura prognostica, quella che il giudice è chiamato a fare successivamente, ai sensi dei commi 3 e 4, riguarda la concreta realizzazione delle attività ripristinatorie e risarcitorie poste in essere dall’ente. La verifica deve riguardare i parametri e le condizioni richiesti dall’art. 17. Inoltre, poiché si tratta di protocolli organizzativi adottati solo in seguito alla commissione di un reato e che, quindi, perseguono una funzione di prevenzione della “ ripetizione del rischio ” — già verificatosi con la commissione del reato per cui si procede — deve essere accertata la loro idoneità ad eliminare le carenze organizzative che hanno portato alla commissione del reato. In questo senso, il giudice deve procedere a tale verifica, tenendo conto del dato concreto desumibile dalla prospettiva accusatoria (). In una delle prime applicazioni dell’istituto è stato affermato che “ quando il rischio si è concretizzato e manifestato in un’elevata probabilità di avvenuta commissione dell’illecito da parte della società, i modelli organizzativi predisposti dall’ente dovranno necessariamente risultare maggiormente incisivi in termini di efficacia dissuasiva e dovranno valutare in concreto le carenze dell’apparato organizzativo e operativo dell’ente che hanno favorito la perpetrazione dell’illecito ” ().

Il giudice della cautela anticipa il “ giudizio ” relativo al perfezionamento delle condizioni di cui all’art. 17, “ giudizio ” che ordinariamente spetterebbe al giudice della cognizione. Ovviamente, non si realizza alcun giudicato sul perfezionamento delle condizioni ex art. 17, nel senso che il giudice della cognizione potrà ritenere le condotte riparatorie non idonee o non complete e, di conseguenza, applicare ugualmente le sanzioni interdittive; così come dinanzi ad una valutazione negativa del giudice della cautela, quello della cognizione potrà ritenere adempiute le condotte prescritte dall’art. 17 e non applicare le sanzioni interdittive.

Potranno verificarsi valutazioni ancor più divergenti nel caso in cui l’ente abbia posto in essere le condotte riparatorie sulla base dell’art. 49 e il giudice della cognizione ritenga, invece, l’insussistenza dell’illecito. Il decreto non ha previsto un istituto analogo a quello di cui all’art. 314 c.p.p. sulla riparazione per ingiusta detenzione, ma del resto non è materia di custodia cautelare, quanto di misure interdittive per le quali nemmeno il codice di procedura prevede la riparazione per l’ingiusta applicazione.

La richiesta di porre in essere gli adempimenti che possono avere come effetto immediato la sospensione delle misure, può essere presentata anche nel corso dell’udienza di cui all’art. 47, in quanto, come si è visto, il contraddittorio e il contatto con il giudice sono funzionali anche alla verifica di questo tipo di esito della procedura. La richiesta potrebbe addirittura precedere la decisione e, ad esempio, essere formulata come ipotesi subordinata nelle conclusioni della difesa al termine dell’udienza. In questo caso, il giudice una volta che abbia ritenuto accoglibile la domanda del pubblico ministero di applicazione della misura, dovrebbe passare a valutare, nella stessa sede, la richiesta dell’ente e, in caso di delibazione favorevole, disporre contestualmente la sospensione della misura. In questo modo, l’ente eviterebbe l’esecuzione della misura disposta.

Se si realizzano le condizioni di cui all’art. 17, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell’ipoteca; la fideiussione prestata si estingue, secondo quanto prevede l’art. 49 comma 4. In sostanza, la corretta e tempestiva attuazione delle condotte riparatorie nel procedimento incidentale cautelare, porta sicuramente alla revoca delle misure interdittive disposte. Il processo è destinato comunque a proseguire per l’accertamento della responsabilità dell’ente.

Nel caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la cauzione viene devoluta alla Cassa delle ammende (). In questa ipotesi il giudice provvede a ripristinare la misura senza che sia necessaria l’iniziativa del pubblico ministero (). Peraltro, deve ritenersi, secondo le regole generali, che il ripristino non potrà conseguire ad un inadempimento dovuto a cause sopravvenute non imputabili all’ente (): in un caso di questo tipo sembrerebbe che il giudice possa concedere un altro termine funzionale alla realizzazione del programma stabilito.

La tardiva attuazione delle condotte riparatorie porta comunque alla revoca delle misure, ai sensi del combinato disposto degli artt. 49 comma 4 e 50 comma 1 (), anche se il giudice abbia già disposto il ripristino: in tali casi, la revoca è disposta d’ufficio dal giudice oppure su richiesta dell’ente, dopo che sia stata accertata l’esistenza delle condizioni stabilite dall’art. 17. A questo proposito, è stato rilevato che nel caso di ritardo nell’adempimento la perdita della garanzia prestata appare eccessiva, soprattutto in considerazione della possibilità di ottenere comunque la revoca della misura (). In realtà, l’art. 49 comma 3 collega il ripristino della misura e la conseguente perdita della garanzia prestata non alla semplice inosservanza del termine fissato dal giudice, ma a tre distinte situazioni riguardanti, rispettivamente, la mancata ovvero la incompleta o la inefficace esecuzione delle attività nel termine stabilito. Con la prima delle situazioni considerate deve intendersi un atteggiamento omissivo, che in sostanza si traduca in una sorta di rifiuto nel porre in essere le condotte riparatorie, rispetto al quale la perdita della cauzione o delle altre forme di garanzie appare del tutto adeguata; invece, nei casi in cui l’attività dovuta risulti incompleta o inefficace, il giudice dovrà necessariamente considerare il grado di incompletezza e di inefficacia attraverso un giudizio tecnico che tenga conto, da un lato, dell’adeguatezza del termine fissato, dall’altro, dell’impegno profuso da parte dell’ente e, infine, prendendo in considerazione anche le eventuali difficoltà incontrate nella realizzazione del programma. Ne consegue, che soltanto nelle ipotesi di grave incompletezza o inefficacia delle attività poste in essere rispetto ai parametri indicati conseguirà il ripristino della misura con devoluzione delle garanzie alla Cassa delle ammende; qualora l’inadempienza non raggiunga livelli di gravità e di serietà, non vi è ragione per cui il giudice debba ripristinare la misura, purché ritenga che il programma possa essere integrato e completato nel breve periodo. Nulla vieta, infatti, che il giudice possa prorogare il termine inizialmente stabilito o perché si sia rivelato alla fine inadeguato oppure perché l’adozione delle condotte riparatorie è risultata più complessa del previsto.

Infine, deve essere presa in considerazione un’ulteriore ipotesi: quella in cui l’ente abbia adottato il modello organizzativo, senza dar luogo al risarcimento del danno e senza mettere a disposizione il profitto conseguito al fine della confisca. Anche in questo caso si configura un adempimento parziale rispetto a quanto impone l’art. 17, che richiede la concorrenza di tutte le condotte indicate nelle lett. a), b) e c). Tuttavia, appare difficile che in presenza dell’adozione del modello di organizzazione, previsto dall’art. 17, lett. b), il giudice possa ritenere ancora sussistente l’esigenza cautelare rappresentata dal pericolo della reiterazione dell’illecito. Più verosimilmente, una simile evenienza dovrebbe portare comunque alla revoca della misura, per sopravvenuta mancanza di esigenze cautelari, ovviamente previa verifica dell’idoneità del modello a prevenire il rischio di commissione di reati della specie di quello per cui si procede.

La nomina del commissario giudiziale.

L’art. 45 comma 3, prevede che il giudice “ in luogo della misura cautelare interdittiva ” possa nominare un commissario giudiziale per un periodo pari alla durata della misura che sarebbe stata applicata. Si tratta di una novità assoluta rispetto al sistema delle cautele previsto dal codice, ma in linea con il sistema sanzionatorio che il d.lgs. n. 231/2001 ha apprestato per la responsabilità degli enti. La disposizione richiama, infatti, la disciplina contenuta nell’art. 15 che, con riferimento alla applicazione delle sanzioni con la sentenza di condanna, regola in termini generali il nuovo istituto del commissario giudiziale (). Si tratta di un istituto che deriva dal criterio direttivo contenuto nell’art. 11 comma 1, lett. l), n. 3 della l. delega 29 settembre 2001, n. 300, che prevedeva la nomina di un vicario nel caso in cui, dall’applicazione della sanzione dell’interdizione, anche in via temporanea, potesse derivare un pregiudizio a terzi dal mancato esercizio dell’attività. Se intesa alla lettera, tale norma avrebbe determinato la sostanziale inapplicabilità delle sanzioni interdittive, in quanto tutte potenzialmente idonee a rappresentare un pregiudizio per i terzi. L’art. 15 del decreto in esame ha, invece, doverosamente offerto un’interpretazione ragionevole del criterio, individuando il bilanciamento tra gli interessi dei terzi e la tutela della collettività nei casi in cui l’interruzione dell’attività dell’ente sia in grado di compromettere interessi pubblici di particolare rilevanza, collegati allo svolgimento di un pubblico servizio, oppure al rischio di crisi occupazionali rilevanti.

L’intera disciplina dell’art. 15 è replicata per le misure cautelari interdittive (). Dovranno, innanzitutto, sussistere i presupposti per l’applicazione di una misura interdittiva in grado di determinare l’interruzione dell’attività dell’ente, per cui il giudice dovrà ritenere, sulla base dei criteri di scelta delle misure di cui all’art. 46, che solo l’interruzione temporanea dell’attività sia in grado di eliminare la pericolosità dell’ente. Inoltre, deve sussistere almeno una delle condizioni indicate dall’art. 15: a) svolgimento di un pubblico servizio o di un servizio di pubblica necessità la cui interruzione può provocare un grave pregiudizio alla collettività; b) rischio di rilevanti ripercussioni sull’occupazione. Si tratta di valutazioni che, sebbene ancorate a parametri legali, presuppongono una forte discrezionalità nella valutazione in concreto, che se effettuata nella fase cautelare, con una cognizione necessariamente “ superficiale ” finisce, di fatto, per esporre il giudice a valutazioni di “”opportunità amministrativa”.

Per quanto riguarda il primo presupposto si tratta di stabilire se l’interruzione cui si riferisce l’art. 15 derivi direttamente dalla tipologia e dal contenuto della sanzione oppure possa conseguire all’effetto indiretto di una sanzione di altro tipo: a seconda della risposta che viene data al quesito, l’ambito operativo del commissariamento giudiziale è destinato a restringersi o ad allargarsi ().

Invero, può ritenersi che oltre alla interdizione di cui alla lett. a), dell’art. 9 comma 2, anche le sanzioni contenute nelle successive lettere possono determinare una situazione interruttiva: in questi casi, però, al giudice non sarà sufficiente tenere presente il contenuto della sanzione, come nell’ipotesi di applicazione dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, ma dovrà anche considerare la situazione dell’ente, le modalità di svolgimento della sua attività, i suoi rapporti con la pubblica amministrazione. Ciò che non potrà fare è prendere in considerazione elementi non direttamente riconducibili agli effetti del provvedimento cautelare. Così, ad esempio, la sanzione della sospensione o della revoca delle autorizzazioni o concessioni di per sé non è idonea a determinare l’interruzione dell’attività, ma lo diventa qualora l’ente svolga un pubblico servizio per il quale siano necessari i provvedimenti autorizzatori oggetto del provvedimento di revoca o di sospensione (si pensi al caso di un’impresa che abbia in concessione un servizio di trasporto pubblico); discorso analogo vale per il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione o per l’esclusione da agevolazioni o finanziamenti pubblici, ipotesi in cui tuttavia è più difficile immaginare un ente che, a causa di queste sanzioni, veda interrotta la sua attività.

Ovviamente, ai fini del commissariamento la mera interruzione non rileva di per sé, ma soltanto in quanto provochi, nel caso in cui l’ente svolga un servizio pubblico o di pubblica necessità, un grave pregiudizio alla collettività nonché nell’ipotesi in cui dalla cessazione temporanea dell’attività derivino rilevanti ripercussioni sull’occupazione, tenuto conto delle dimensioni dell’ente e delle condizioni economiche del territorio in cui opera.

Deve ritenersi applicabile alla fase cautelare anche l’art. 79 che disciplina la procedura di nomina del commissario con riferimento all’esecuzione di una sentenza che abbia disposto la prosecuzione dell’attività dell’ente ai sensi dell’art. 15, almeno con riferimento alla relazione che il commissario deve fare al giudice sull’andamento della gestione e sull’attività svolta. Nella fase cautelare, a differenza che nel corso dell’esecuzione, il provvedimento di nomina è contestuale alla verifica dei presupposti che giustificano la prosecuzione dell’attività, per cui sarà il giudice della cautela a nominare il commissario, nello stesso provvedimento con cui dispone la prosecuzione dell’attività in luogo della misura interdittiva.

Secondo l’art. 15, il commissariamento giudiziale sembra configurarsi come una misura sostitutiva delle sanzioni interdittive, finalizzata ad evitare che, in determinate situazioni, l’accertamento della responsabilità dell’ente si risolva in un pregiudizio per la collettività: al posto della sanzione interdittiva idonea ad interrompere l’attività dell’ente, si prevede, per un periodo temporaneo, una sorta di “ espropriazione ” dei poteri direttivi e gestionali che sono assunti dal commissario, sulla base delle indicazioni impartite dall’autorità giurisdizionale. In questo senso, si giustifica anche l’onere del commissario di attuare i modelli di organizzazione e di controllo, in quanto la sostituzione trova la sua ragione d’essere anche nel far recuperare una situazione di legalità organizzativa all’ente, evitando che si possano ripetere gli stessi illeciti.

Anche nella nomina effettuata in sede cautelare il giudice indica i compiti ed i poteri del commissario; ciò che crea qualche problema applicativo è la previsione contenuta nel comma 3 dell’art. 15 secondo cui il commissario, nell’ambito dei compiti e dei poteri indicati dal giudice, cura l’adozione e l’efficace attuazione dei modelli di organizzazione e di controllo idonei a prevenire i reati. Un tale onere a carico del commissario si giustifica quando è intervenuta una sentenza di accertamento della responsabilità dell’ente, in forza della quale risultino le carenze organizzative dell’ente; ma non sembra praticabile in una fase del procedimento in cui una tale verifica è in corso e non vi è stato alcun accertamento definitivo sulla violazione o mancata adozione dei modelli organizzativi. Addirittura la condotta ripristinatoria del commissario potrebbe trasformarsi in un elemento dimostrativo della carenza organizzativa dell’ente, con ripercussioni sulla valutazione probatoria. Nel corso del processo l’adozione dei modelli organizzativi può avvenire spontaneamente, con i conseguenti effetti premiali sulle sanzioni, oppure in sede esecutiva, coattivamente, sulla base di una sentenza irrevocabile che abbia consentito la prosecuzione dell’attività, nominando il commissario giudiziale ai sensi dell’art. 15. Ma non sembra ammissibile che con un provvedimento cautelare il giudice imponga, seppure indirettamente tramite il commissario, un obbligo di fare, sulla base di un accertamento indiziario della responsabilità dell’ente, tenendo presente che l’adozione dei modelli organizzativi potrebbe comportare anche notevoli investimenti da parte della società. Pare quindi doversi escludere che nella fase cautelare possa trovare applicazione la disposizione del comma 3 dell’art. 15, a meno che non vi sia la disponibilità collaborativa dell’ente, che però, in questo caso, avrebbe interesse a realizzare direttamente le condotte riparatorie a norma dell’art. 49, così “ sottraendosi ” alla misura cautelare ().

Se si esclude la possibilità di attuare i modelli organizzativi in questa fase attraverso l’intervento di un soggetto estraneo, non può neppure ammettersi che l’ente continui la propria attività in una situazione organizzativa che incentiva la commissione degli illeciti. In questi casi, il giudice si trova dinanzi alla seguente alternativa: a) consentire la prosecuzione dell’attività dell’ente, sebbene commissariato, ma in una situazione di “ propensione ” all’illecito; b) applicare la misura cautelare, paralizzando o limitando l’attività d’impresa, con conseguente pregiudizio degli interessi collettivi considerati dall’art. 15. Dal punto di vista processuale, l’art. 45 comma 3, riconosce al giudice un potere discrezionale (può nominare) che si estrinseca nella valutazione in ordine alla possibilità della continuazione dell’attività dell’ente in una situazione di idoneità organizzativa. Ma non è chiaro il parametro che dovrà utilizzare nella scelta tra il dare prevalenza all’interesse pubblico alla continuazione del servizio e alla non interruzione dell’attività per la salvaguardia dei livelli occupazionali ovvero all’interesse della tutela sociale. È evidente che si tratta di valutazioni comparative che solitamente non rientrano nelle competenze della giurisdizione penale, riguardando determinazioni molto vicine all’attività della pubblica amministrazione. Tuttavia, può ritenersi che, in considerazione del soggetto che è chiamato a compiere la scelta, debba prevalere, nel confronto tra i contrapposti interessi, quello della tutela della collettività dal pericolo di commissione di ulteriori reati da parte dell’ente, interesse che potrà essere recessivo rispetto alle esigenze indicate dall’art. 15 nelle lett. a) e b), solo laddove risulti che le carenze organizzative rappresentino un rischio di reato estremamente esiguo.

Una volta ridimensionato il ruolo ed i poteri del commissario nominato nella fase cautelare, risulta più agevole la verifica circa l’individuazione degli organi societari che debbano essere sostituiti. Infatti, se si esclude che il commissario abbia il compito di attuare i modelli di organizzazione e di controllo, la sua attività sarà limitata necessariamente alla gestione dell’ente per la durata della misura cautelare, sostituendo gli organi amministrativi (). In ogni caso, il giudice nell’ordinanza con cui dispone il commissariamento, oltre a motivare le ragioni della scelta, dovrà indicare i compiti ed i poteri del commissario tenendo conto, come sottolinea l’art. 15 comma 2, della specifica attività in cui è stato posto in essere l’illecito ().

 

 

 

 

 

II

 

La valutazione giudiziale del modello organizzativo.

La valutazione giudiziale del modello organizzativo è ancorata alle sue caratteristiche individuali, da rapportare alla peculiare dimensione esistenziale dell’ente collettivo, tenendo conto dei parametri fissati dal legislatore per tale accertamento, che sono quelli dell’idoneità in relazione all’adozione del compliance e alla sua efficace attuazione.

E’ quindi possibile isolare due distinti momenti, quelli dell’adozione e dell’attuazione, cui si riferiscono gli artt. 6 e 7 d.lgs. 231/2001, momenti che però non possono che essere considerati unitariamente, essendo aspetti strettamente collegati alla valutazione giudiziale finale in termini di adeguatezza e idoneità del modello organizzativo.

Con riferimento al profilo dell’adozione, il giudice valuterà l’idoneità del modello in rapporto ai contenuti minimi fissati dalla legge e precisamente dall’art. 6 comma 2 d.lgs. 231/2001: in estrema sintesi, il modello dovrà contenere la mappatura dell’analisi dei rischi, individuando le attività nel cui ambito possono essere commessi i reati e, nello stesso tempo, dovrà indicare le contro-misure  e controllare che siano operative e in collegamento con l’organismo interno a cui deve essere assicurato un flusso effettivo di notizie e di informazioni; inoltre, deve prevedere un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure stesse.

Questo primo approccio è caratterizzato da una valutazione di idoneità in termini di astrattezza, attraverso la verifica del rispetto dei contenuti legislativi e si concretizza in un giudizio di tipo prognostico sul funzionamento del modello, che viene formulato, prevalentemente, in base alla documentazione fornita dall’ente.

Ma la valutazione giudiziale deve spingersi anche a verificare l’attuazione del modello in termini di efficacia, così come si esprimono gli artt. 6 e 7 cit. e in questa seconda fase il giudice non può limitarsi alla “lettura del documento che integra il modello”, ma deve basarsi su elementi di fatto concreti, desumibili da elementi di prova acquisiti ovvero dai risultati delle perizie disposte, tutti mezzi funzionali ad accertare che l’ente abbia effettivamente reso operanti i protocolli di gestione. In sostanza, qui il giudice valuta l’efficacia del modello in concreto, non più in astratto.

Nel compiere questa valutazione il giudice “entra” nell’azienda al fine di acquisire elementi sul funzionamento del modello. E’ evidente che potrà  trattarsi di un controllo particolarmente invasivo, in quanto il giudice arriva a sindacare le scelte organizzative della società, quindi finisce per condizionare un aspetto fondamentale della stessa autonomia imprenditoriale. Il rischio che viene paventato è quello di un’intrusione giudiziaria ipertrofica, che cioè “coinvolga e sconvolga” l’intera vita dell’ente sottoposto alle indagini o imputato nel processo.

Invero, non è questo l’obiettivo del d.lgs. 231/2001. Occorre chiarire che il controllo sull’efficacia del modello è sempre limitato alla verifica circa l’idoneità “a prevenire reati della specie di quello verificatosi”. Ciò significa che il giudizio di idoneità del compliance non è mai totalizzante, ma rivolto espressamente ad escludere la reiterazione degli illeciti già posti in essere: deve riguardare, quindi, quei reati che sono contestati all’ente nel procedimento. Il modello non viene “testato” dal giudice nella sua globalità, ma solo in rapporto alle regole cautelari violate, che possono determinare il rischio di reiterazione del reato della stessa specie. Ad esempio, nel caso sia stato commesso il reato di aggiotaggio nell’interesse dell’ente, il giudice, nel verificare l’idoneità del modello adottato, dovrà necessariamente limitare la sua “inchiesta” alle violazioni delle regole cautelari riferite a tale reato, mentre non potrà trarre argomenti negativi sul modello in presenza di rilevate inosservanze alle  misure antinfortunistiche, certamente non in grado di favorire fenomeni di aggiotaggio.

E’ stato messo in rilievo che il modello concorre a costituire uno degli elementi incidenti sulla colpa dell’ente, nel senso che la rimproverabilità e, di conseguenza, l’imputazione dell’illecito, sono collegati alla inidoneità o all’inefficacia del modello stesso, secondo una concezione normativa della colpa. Quelli che sono considerati difetti organizzativi, spesso derivano da politiche spregiudicate, che fanno delle società il reale centro propulsore della criminalità d’impresa. E’ attraverso la riorganizzazione virtuosa che l’ente approda alla legalità ed è per questo che, con riferimento alla responsabilità da reato prevista dal d.lgs. 231/2001, si parla di colpa di organizzazione: il modello previsto dall’art. 6 d.lgs. cit. viene ad essere il paradigma stesso della colpevolezza ovvero, più semplicemente, il meccanismo che consente all’ente di escludere la sua colpevolezza. In altri termini, nell’accertamento di idoneità del modello il giudice ritiene sussistente la “colpa” quando l’ente non si è dato un’organizzazione adeguata, omettendo di osservare le regole cautelari che devono caratterizzare la sua struttura, secondo le linee dettate dall’art. 6 d.lgs. 231/2001.

Se è esatta la ricostruzione della responsabilità dell’ente in questi termini, allora è necessario chiedersi se il giudice, nella valutazione del modello, deve prendere in considerazione anche l’imputazione del risultato colposo.

Perché possa  affermarsi una responsabilità colposa si ritiene che non sia sufficiente la realizzazione del risultato offensivo tipico in conseguenza della condotta inosservante di una certa regola cautelare, ma occorre che “il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo a fronteggiare il quale è diretta la regola cautelare violata”.

La rimproverabilità per colpa riguarda sia la realizzazione della condotta inosservante, sia la produzione del risultato offensivo, con la conseguenza che occorre la sussistenza di una corrispondenza funzionale tra risultato e regola cautelare.

Nel giudizio sul modello la regola cautelare corrisponde ai protocolli di gestione del rischio e  il reato costituisce il risultato offensivo, sicché il problema è verificare se il giudice debba accertare la  sussistenza della corrispondenza causale tra i due elementi; inoltre, una volta ritenuta la necessità della corrispondenza causale, si pone l’ulteriore problema della valutazione del c.d. comportamento alternativo lecito.

Cosa accade nell’ipotesi in cui l’osservanza della regola cautelare, al posto del comportamento inosservante, non avrebbe comunque consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da quella certa attività? Se l’evento posto in essere a causa dell’inosservanza della regola cautelare risulta non evitabile, vi è ancora spazio per l’affermazione della colpa dell’ente?

Il problema riguarda l’ambito di applicazione delle regole normalmente utilizzate nell’accertamento della colpa nel giudizio di valutazione del modello: l’alternativa che si pone è se il giudice deve limitarsi a verificare la violazione della regola cautelare (modello), che l’ente si è autoimposto, oppure se debba spingersi ad accertare la corrispondenza  causale tra cautela violata e produzione del risultato offensivo.

La seconda opzione conduce a conclusioni in totale sintonia con la teoria del comportamento alternativo lecito, in quanto una volta accertato che la produzione dell’evento è stata determinata da fattori di rischio ulteriori rispetto a quelli considerati dalla regola cautelare, la responsabilità colposa dovrà essere esclusa perché l’evento non risulta prodotto dalla violazione della regola cautelare; invece, nell’ipotesi in cui non si possa escludere con certezza il ruolo causale dei fattori di rischio considerati dalla norma cautelare, la responsabilità colposa potrà essere affermata.

Nel momento in cui si costruisce una responsabilità dell’ente di tipo colposo, questo tipo di valutazione deve essere fatta anche nel giudizio sull’idoneità dei modelli adottati.

Ne consegue che il giudice dovrà collocarsi idealmente nel momento in cui il reato è stato commesso per accertarne, in base ad un giudizio di prognosi postuma, la prevedibilità e l’evitabilità qualora fosse stato adottato il modello virtuoso.

 

Il giudizio sul modello nelle differenti fasi processuali.

Il modulo delineato dal decreto del 2001 attribuisce all’ente la possibilità di dotarsi del modello in diverse fasi del processo, con effetti giuridici diversificati a seconda del momento in cui interviene l’adozione.

Il momento in cui avviene il controllo giudiziale del modello non condiziona la valutazione del giudice; in particolare, anche nel procedimento cautelare la verifica del modello avviene sempre in base ad un accertamento a “cognizione piena”, nel senso che la delibazione provvisoria, propria del procedimento cautelare, non incide sulla pienezza dell’accertamento che ha ad oggetto il modello. All’interno di una fase, che riguarda l’emissione di provvedimenti temporanei, basati su un giudizio di gravità degli indizi di colpevolezza, si inserisce un accertamento di plena cognitio in relazione all’idoneità del modello adottato, tanto è vero che il giudice della cautela normalmente dispone una perizia per la valutazione del compliance.

Se il giudizio sul modello non subisce condizionamenti in relazione alle diversi fasi in cui interviene, tuttavia è opinione diffusa che la valutazione del giudice muti a seconda che abbia ad oggetto un modello ante factum ovvero un modello post factum.

Così, ad esempio, si è sostenuto che alla diversità delle situazioni in cui il modello è adottato deve corrispondere “un diverso ambito di operatività e incisività dei modelli”, precisando che nel caso di modello post factum, non essendo funzionale alla prevenzione del rischio reato, dovrà tenersi conto in concreto “della situazione che ha favorito la commissione dell’illecito, sì da eliminare le carenze organizzative che hanno determinato il reato”. In altri termini, si ritiene che la valutazione del giudice in ordine a questo modello deve formularsi non in termini esclusivamente prognostici ed ipotetici, bensì soprattutto in relazione al “dato fattuale desumibile dalla prospettazione accusatoria”, attraverso un giudizio “mirato e calibrato sulle carenze organizzative” che hanno reso possibile il reato.

Su un piano analogo si è mossa anche parte della dottrina, che ha messo in evidenza come la valutazione di idoneità dei modelli c.d. post factum debba essere più specifica rispetto a quelli ante factum, per la semplice ragione che “un reato si è già verificato” e che sorge la necessità che il modello rimuova le carenze organizzative verificatesi.

Invero, la distinzione tra le due tipologie di modelli non deve essere sopravvalutata, anche in considerazione del fatto che, dal punto di vista della valutazione del giudice, la ratio distinguendi non è da individuare nella avvenuta commissione del reato, dal momento che anche il modello predisposto ex ante viene sottoposto al giudizio di idoneità solo nel momento in cui il reato è stato commesso. L’esistenza del reato e, quindi, il verificarsi di  quella che può essere considerata una carenza organizzativa è un presupposto della valutazione giurisdizionale per entrambi i tipi di compliance.

Deve allora riconoscersi che non vi è una diversità strutturale nella valutazione giudiziale tra modelli, a seconda che siano adottati ex ante ovvero ex post, dovendo escludersi differenziazioni in termini di maggiore o minore incisività collegate al tipo, in quanto il giudice prenderà sempre in considerazione i “segnali di rischio” che si sono già verificati.

In realtà, la distinzione tra i due tipi di modelli risiede negli effetti che essi producono.

Nel modello post factum il giudice è chiamato a controllare che l’ente abbia posto in essere anche quelle condotte riparatorie e di ravvedimento operoso indicate nell’art. 17 d.lgs. 231/2001 alle lettere a) e c), cioè il risarcimento integrale del danno, l’eliminazione delle conseguenze dannose  e pericolose del reato, la messa a disposizione dell’eventuale profitto. In questo caso, l’accertamento giudiziale va oltre il modello, per verificare che la condotta dell’ente abbia assolto ad una funzione effettivamente riparatoria.

Invece, l’efficace attuazione del modello ante factum può produrre l’esonero dalla responsabilità, se l’ente dimostra di avere adottato il modello idoneo prima della commissione del fatto e ricorrono le altre condizioni previste dall’art. 6 comma 1 lett. b), c), d) d.lgs. 231/2001. E’ evidente la funzione preventiva del modello ante factum, rivolto ad assicurare il corretto funzionamento dell’organismo aziendale, attraverso l’adozione di “una strategia, sistematica e continua, di contenimento del rischio reato, rivelandosi un misuratore del coefficiente di diligenza che la societas ha messo in campo per fronteggiare tale rischio”.

 

Adozione e attuazione del modello: onere probatorio o onere di allegazione per l’ente?

L’art. 6 d.lgs. 231/2001 prevede che sia l’ente a dover dimostrare di avere adottato ed efficacemente attuato il modello di organizzazione. In questo modo, la clausola di esenzione dalla responsabilità è condizionata dal meccanismo processuale dell’inversione dell’onere probatorio: il pubblico ministero potrà limitarsi a provare l’esistenza di un reato presupposto commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di uno dei soggetti indicati nell’art. 5 comma 1 lett. a) d.lgs. cit., mentre spetterà all’ente dare, eventualmente, la prova di avere adottato un modello idoneo.

Questa disposizione ha suscitato notevoli critiche, non solo perché è ritenuta oltremodo penalizzante per l’ente, ma soprattutto in quanto pone una vistosa deroga alle regole processuali ordinarie, a cui si ispira il procedimento di accertamento della responsabilità delle persone giuridiche, con conseguente violazione della presunzione di non colpevolezza.

Tuttavia, occorre evidenziare che l’inversione dell’onere probatorio gioca a favore dell’ente-imputato, in quanto è funzionale ad impedire il riconoscimento della sua responsabilità unicamente in base  al criterio di imputazione oggettiva, costituito dall’interesse o dal vantaggio. L’art. 6 d.lgs. cit. rappresenta il tentativo di individuare una “colpevolezza” in capo all’ente: la disposizione in esame pone una deroga alla teoria dell’immedesimazione organica, in base alla quale l’ente risponde perché per suo conto agiscono i soggetti che lo rappresentano, e imbastisce un sistema in cui, ai fini della responsabilità dell’ente, occorre non solo che il reato sia ad esso ricollegabile oggettivamente (attraverso il criterio obiettivo dell’interesse o del vantaggio), ma che all’ente sia possibile muovere il rimprovero di aver posto in essere l’illecito a causa della sua “cattiva organizzazione”, inidonea a minimizzare il rischio di commissione di reati. Si è voluto evitare che la responsabilità da reato prevista dal d.lgs. 231/2001, ancorata  alla condotta di una persona fisica che ricopra una certa posizione all’interno della struttura organizzativa, comportasse che l’ente dovesse rispondere anche per fatto altrui, in violazione del contenuto minimo indicato dall’art. 27 Cost.  L’adozione tempestiva ed efficace del modello organizzativo virtuoso libera l’ente da ogni responsabilità per le condotte illecite poste in essere dai suoi vertici apicali, a condizione che dimostri che tali illeciti siano stati realizzati eludendo fraudolentemente il modello stesso.

Lasciando da parte ogni valutazione sulla bontà della scelta operata dal legislatore, si vuole sottolineare che le prassi sviluppatesi in questi anni di applicazione del decreto hanno prodotto un tendenziale ridimensionamento della deroga in materia di prova, quanto meno in relazione alla dimostrazione dell’adozione  del modello organizzativo. Infatti, l’onere probatorio  si è trasformato in un semplice “onere di allegazione”, nel senso che l’ente si limita a sottoporre il compliance alla valutazione del giudice, producendo la necessaria documentazione: lo “sforzo probatorio” che grava sull’ente finisce per consistere nella dimostrazione che un modello è stato adottato, perché nella prassi è il giudice ad accertarne l’efficienza e l’idoneità, secondo i criteri di valutazione che sopra sono stati illustrati. Rispetto al rigore della disposizione normativa si è verificato, nella sua applicazione concreta, uno spontaneo riequilibrio degli oneri probatori, dovuto alla circostanza che il giudice, per verificare l’efficacia del modello, si serve necessariamente di una perizia, spesso collegiale, con l’effetto che questo mezzo di prova finisce per assorbire e supplire agli oneri probatori dell’ente, ridotti alla sola dimostrazione della tempestiva adozione del modello e della sua astratta idoneità a ridurre il rischio-reato. In altri termini, dall’esame dei provvedimenti giudiziali in questa materia, emessi prevalentemente nella fase cautelare, sembra che il giudice non attenda neppure che l’ente provi l’efficacia del modello, magari producendo una consulenza di parte, in quanto assume egli stesso, attraverso il proprio perito, il compito di accertare il funzionamento in concreto del modello.

Il ricorso alla perizia d’ufficio, ormai considerata alla stregua di una prassi virtuosa dei giudici, produce come effetto indiretto un minore impegno probatorio dell’ente, che al massimo si limita a contrastare le conclusioni negative del perito, con una consulenza di parte.

 

La fraudolenta elusione.

Quando si parla della valutazione giudiziale dei modelli un’obiezione che spesso viene mossa è la seguente: come si fa a sostenere che il modello è idoneo e adeguato nel momento in cui si verifica la commissione del reato imputabile all’ente? In questi casi, non dovrebbe sempre riconoscersi per tabulas che il modello è risultato inidoneo?

In realtà, la commissione del reato non equivale a dimostrare che il modello non è idoneo. Secondo la stessa normativa prevista dal d.lgs. del 2001 il cattivo funzionamento del modello può dipendere anche dalla sua volontaria e fraudolenta elusione da parte delle persone che hanno commesso il reato, nel qual caso non scatta la responsabilità dell’ente. Ed infatti si sostiene che il rischio reato è ritenuto accettabile quando il sistema di prevenzione non può essere aggirato se non fraudolentemente.

Qui la prova sull’elusione fraudolenta del modello è tutta a carico dell’ente ed è con riferimento a questo meccanismo di inversione dell’onere probatorio che si è sostenuta la natura sostanzialmente oggettiva del criterio di imputazione, con conseguente violazione della presunzione di non colpevolezza.

In ogni caso, secondo la disposizione in esame per andare esente dalla responsabilità conseguente al reato commesso da un soggetto in posizione di vertice, l’ente deve dimostrare che l’illecito sia stato determinato da una “abnorme risoluzione” del soggetto attivo, attuata in modo “fraudolento”, tanto da sottrarsi alla vigilanza dei protocolli di gestione e dell’organo preposto al controllo. Pertanto, l’elusione fraudolenta non coincide con un semplice aggiramento volontario delle regole cautelari contenute nel modello, ma richiede che sia posto in essere un artificio, cioè una condotta attraverso cui vengono forzate e aggirate le regole dell’organizzazione virtuosa. E’ a queste condizioni che l’ente si libera dalla responsabilità.

Su questo specifico tema si registra la prima decisione che, in un caso di aggiotaggio, ha applicato l’esimente prevista dall’art. 6 d.lgs. 231/2001, smentendo le previsioni più pessimistiche di quanti ritenevano che la disposizione fosse destinata a non trovare mai applicazione nelle aule di giustizia.

Con riferimento al profilo che qui interessa si vuole evidenziare che il giudizio di idoneità ed efficacia del modello è stato confermato, nella sentenza citata, anche dopo l’esame del profilo riguardante l’elusione fraudolenta da parte dei vertici societari: in questo caso il giudice ha affermato, correttamente, il principio secondo cui non può ritenersi inefficace un modello solo perché siano stati realizzati degli illeciti, tuttavia si ha l’impressione che in relazione all’elusione ci sia stato un atto di fede, essendo mancata la valutazione in concreto dell’efficacia del modello.

Nell’apprezzamento del modello è ricompresa anche la valutazione sulla sua capacità di evitare le elusioni, in ciò consistendo la stessa essenza del sistema di cautele delineato dall’art. 6 d.lgs. 231/2001. Nella specie, l’elusione fraudolenta sarebbe consistita nell’inosservanza delle procedure previste per la comunicazione all’esterno delle notizie riguardanti la società: in particolare, presidente e amministratore delegato avrebbero costruito e fornito dati di convenienza, senza tenere conto di quelli elaborati dalle articolazioni coinvolte, quindi saltando la fase dell’istruttoria tecnica e fornendo al pubblico notizie “manipolate”. Nessun dubbio sull’attività fraudolenta dei vertici, ma viene spontaneo domandarsi se  il modello predisposto fosse davvero efficace per assicurare la corretta gestione delle notizie relative allo stato della società ovvero se si fossero dovute prevedere le cautele non solo nella fase istruttoria, assegnata agli organi tecnici, ma anche alla fase terminale di “uscita” delle notizie, interamente gestita dagli apici. E’ evidente che la questione concerne direttamente il profilo della concreta efficacia del modello ed acquista un rilievo specifico soprattutto se si considera che la clausola di esenzione della responsabilità è subordinata alla verifica che non vi sia stato un insufficiente controllo del modello da parte dell’organismo di vigilanza, aspetto che la sentenza trascura del tutto.

 

Verso uno statuto giurisprudenziale del modello organizzativo?

Vi sono alternative alla valutazione giudiziale del modello organizzativo?

Si è già accennato che un sistema basato su modelli legali di organizzazione, cioè legislativamente predeterminati nei contenuti, possa trovare applicazione solo in determinati settori, in cui sia possibile individuare norme tecniche condivise.

Invero, il timore di una incontrollabile discrezionalità delle decisioni giudiziali in materia di idoneità dei modelli è alla base di due proposte di riforma in questa materia.

Con esse viene superato il sistema previsto dall’art. 6 comma 3 d.lgs. 231/2001, sostituito con una procedura di formale certificazione. Si affida a soggetti altamente specializzati,  il compito di: a) valutare l’idoneità dei modelli adottati dalle imprese; b) rilasciare un vero e proprio “certificato di idoneità” da esibire davanti al giudice.

Tuttavia, non è chiaro  quale sia, secondo queste proposte, il rapporto tra attestazione di validità del modello e il controllo del giudice, se cioè la validazione privata è destinata a sostituire quella del giudice.

Stando a quanto contenuto nel progetto AREL sembrerebbe che al giudice residui sicuramente il controllo in ordine alla corrispondenza del modello concretamente attuato rispetto al modello valutato, nonché l’accertamento “che non si siano manifestate violazioni del modello tali da ingenerare allarme in ordine alla bontà delle scelte organizzative compiute dall’ente”. Ma ciò significa che il giudice penale, una volta riconosciuta la corrispondenza tra modello concreto e modello valutato, sarà obbligato ad escludere la responsabilità dell’ente, senza che possa spingersi a verificare il modello concreto, superando/disapplicando l’attestazione?

Se così fosse ci troveremmo dinanzi ad uno svuotamento del sistema previsto dal d.lgs. 231/2001, perché il modello sarebbe oggetto di una valutazione “a carattere preventivo e astratto”, sottraendo al giudice il compito di operare un reale e concreto confronto tra l’illecito realizzato e il modello adottato. E’ stato efficacemente osservato che si avrebbe non solo la privatizzazione delle regole cautelari, in quanto il modello organizzativo è autonormato, ma anche la privatizzazione del giudizio sulla loro efficacia.

Se la valutazione del modello si inserisce nel più ampio accertamento sulla colpevolezza dell’ente e, quindi, sulla sua rimproverabilità, ha senso “sottrarre al giudice il giudizio sulla colpa per affidarlo, con effetti preclusivi, ad un soggetto privato”?

L’alternativa è tra un sistema di validazione rigida, che cioè vincoli il giudice esponendosi a rischio di incostituzionalità, e un sistema di validazione flessibile, che cioè rappresenti una sorta di presunzione di idoneità del modello, rispetto alla quale il giudice ha un onere di motivazione rafforzato, qualora  ritenga di sottoporre a censura l’attestazione.

Se la responsabilità dell’ente si ispira alla responsabilità per colpa allora deve riconoscersi che, in genere,  le fattispecie colpose danno luogo a quella che è stata definita una “caduta della legalità” determinata dal fatto che il “processo di concretizzazione della colpa presenta margini di incertezza” entro i quali il giudice è costretto a muoversi. 

Si tratterà di circoscrivere tali margini, attraverso il ricorso a sistemi di validazione flessibili oppure rinnovando il procedimento di accertamento dell’idoneità dei codici di comportamento redatti dalle associazioni di categoria da parte del Ministero della giustizia (in questo caso con un notevole risparmio per i costi delle imprese), ma ciò che sicuramente non può essere fatto è sottrarre  al giudice penale la valutazione sulla “colpa di organizzazione”.

Anche in questa materia sarà il valore del precedente giudiziario ad indicare agli enti i caratteri che dovranno assumere i modelli per essere ritenuti idonei a  ridurre il rischio di commissione dei reati. Del resto già oggi, con un diritto giurisprudenziale ancora in formazione, in cui mancano pronunce di legittimità sulla materia dei modelli organizzativi,  è tuttavia possibile individuare alcuni orientamenti stabili sui compliance programs, ad esempio con riferimento alla mappatura delle aree di rischio, al sistema del flusso informativo nonché, con qualche difficoltà in più, alla composizione dell’organismo di vigilanza. L’auspicio è che attraverso un processo di elaborazione interpretativa, a cui sono chiamati i diversi soggetti impegnati nella applicazione concreta del d.lgs. 231/2001, all’interno e al di fuori del processo, si giungerà ad uno “statuto” giurisprudenziale del modello organizzativo.