Lo stato dell’arte sulla diffusione dei modelli organizzativi 231

di Avv. Carlo Cavallo150123-banca_finanza

Articolo comparso sulla rivista BancaFinanza (giugno 2017)

 

Di recente la rivista telematica specializzata Diritto Penale Contemporaneo ha dato risalto, sulle sue colonne, alla pubblicazione di una recente indagine, condotta in collaborazione fra Confindustria e TIM, in materia di diffusione dei modelli di organizzazione e di gestione ai sensi del d.lgs. 231/2001. Lo studio – di cui pare opportuno riprendere, qui, alcune considerazioni di maggior rilievo – esamina, in modo particolare, i dati relativi all’adozione dei c.d. “modelli organizzativi” nelle piccole e medie imprese, che rappresentano la gran parte delle realtà produttive del nostro paese, e dell’effettiva diffusione di tale strumento ai fini della prevenzione di fenomeni criminosi, in special modo, di quelli corruttivi.

La ricerca rivela profili decisamente interessanti, specialmente tenuto conto delle sempre attuali proposte di riforma che da varie parti continuano ad essere avanzate in materia di responsabilità amministrativa degli enti da reato, in particolare con riguardo alle modifiche del catalogo degli illeciti contemplati dal decreto: qualsiasi iter riformatore, infatti, non può non tener conto del dato esperienziale che si ricava dall’esame dello stato dell’arte, con particolare riguardo ad alcuni aspetti fondamentali: il grado di diffusione dei rimedi previsti dal d.lgs. 231/2001 ed il grado di assimilazione dei modelli di compliance in funzione di prevenzione di illeciti penali; la percezione dei rischi tipici rispetto ad un’effettiva applicazione di sanzioni pecuniarie o interdittive; il comportamento atteso (o dichiarato) da una impresa a fronte della commissione di reati nel suo interesse; la propensione degli enti medesimi a sanzionare i trasgressori del modello organizzativo, laddove adottato.   

L’indagine pubblicata in questi mesi rivela, inoltre, un sistema imprenditoriale in cui ben tre quarti delle piccole e medie imprese non hanno ancora adottato un modello organizzativo, pur a fronte di una trasversale elevata percezione di rischi di di commissione di illeciti da parte delle stesse. La conclusione cui pervengono i curatori dello studio, sul punto, non può che essere una: l’adozione del modello non è ancora uniformemente percepita (specie nelle realtà più piccole) come uno strumento utile per la prevenzione dei rischi da reato (in special modo di quelli corruttivi).

Il dato che più colpisce è certamente quello secondo cui solo il 36% del campione di imprese analizzato ha adottato, ad oggi, un modello di organizzazione e di gestione, con significative differenze però fra le imprese di medie dimensioni e le piccole/piccolissime imprese: in particolare, tra gli enti il cui fatturato è al di sotto dei 2 mln €, soltanto una impresa su sette è dotata di modello organizzativo, mentre questo strumento risulta pressoché sconosciuto alle “microimprese” con meno di dieci dipendenti.

È peraltro significativo rimarcare come circa un quinto dei modelli adottati sia del tutto privo di un sistema disciplinare con sanzioni per le eventuali violazioni e come in oltre il 23% dei casi le sanzioni previste siano indirizzate soltanto ai soggetti c.d. sottoposti, e non anche a quelli in posizione apicale.

Preoccupa maggiormente, da ultimo, che il rischio penale – anche solo in termini di apertura di una indagine – sia avvertito in misura molto minore (addirittura trascurabile) in materia di fatti corruttivi e di reati societari: in quest’ambito, infatti, la percezione del rischio di commissione di illeciti penali non sembra spronare le aziende a sostenere i costi connessi all’adozione ed attuazione di un modello organizzativo.