Fallibilità del piccolo imprenditore e responsabilità per bancarotta

di Avvocato Carlo Cavallo.
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Articolo comparso sulla rivista Espansione (marzo 2017).

Con la recente Sentenza n. 3821/2017, la Corte di Cassazione è tornata sull’annosa questione della fallibilità del piccolo imprenditore ai fini di un giudizio penale per il reato di bancarotta fraudolenta (che presuppone l’avvenuto fallimento). Com’è noto, i presupposti per il fallimento sono, da un lato, lo stato di insolvenza dell’impresa (presupposto oggettivo) e, dall’altro, la fallibilità dell’imprenditore (presupposto soggettivo); sotto quest’ultimo profilo, in particolare, il problema sta nello stabilire quando un imprenditore sia fallibile e, conseguentemente, quando possa essere esposto, laddove realizzi una condotta di bancarotta, alle relative sanzioni penali.

L’art. 1 della Legge Fallimentare (R.D. 267/1942, come da ultimo modificato dal D.Lgs. 169/2007), esclude dal novero degli imprenditori soggetti alle disposizioni sul fallimento, quelli che, nell’arco dei tre esercizi precedenti (rispetto all’istanza di fallimento), abbiano registrato un attivo patrimoniale inferiore a 300.000 € e, al contempo, non abbiano avuto ricavi lordi annui superiori a 200.000 € né debiti complessivi superiori a 500.000 €.

Il problema di stabilire quali imprenditori siano fallibili e quali non, come è intuibile, ha riflessi importanti sui giudizi penali in tema di bancarotta (semplice o fraudolenta) e, per questo, ha dato luogo, già in passato, ad un vivace contrasto di giurisprudenza; contrasto peraltro da tempo risolto dalla pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione. Con questa importante decisione si è infatti chiarito che il Giudice penale non ha alcuna possibilità di pronunciarsi sui presupposti oggettivi e soggettivi della sentenza di fallimento e, quindi, anche sulla fallibilità del singolo imprenditore, oltre che sul concreto stato di insolvenza dell’impresa: “Il giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento, quanto al presupposto oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa e ai presupposti soggettivi inerenti alle condizioni previste per la fallibilità dell’imprenditore” Cass. pen. S.U. 19601/2008, Niccoli).

Nel caso qui in commento (sottoposto alla Corte di Cassazione nel corrente anno) il fallimento dell’imprenditore era avvenuto nel lontano 2001, quindi prima che intervenissero le menzionate modifiche apportate all’art. 1 L. Fall. (del 2006 e 2007): sulla base di questa circostanza, l’imprenditore lamenta che, nel giudicare sul suo conto, non si sia tenuto conto del fatto che, la sua impresa, con l’attuale normativa (ed i vigenti limiti di fallibilità) non avrebbe potuto essere dichiarata fallita, con la conseguenza che andrebbe ora esclusa sua responsabilità per i fatti di bancarotta contestati, dato che il reato in questione ha come presupposto proprio il fallimento (si afferma, in particolare, che la modifica dei limiti di fallibilità, in senso più restrittivo, configurerebbe una successione di leggi extrapenali nel tempo, determinando sul reato un effetto più favorevole per l’imputato, pertanto retroattivo ex art. 2 c.p.).

Di contrario avviso, la Cassazione ha invece affermato (confermando un precedente orientamento del 2014) che nella struttura dei reati di bancarotta, la dichiarazione di fallimento assume rilevanza solo quale provvedimento giurisdizionale formale (emesso dal Giudice Civile) e non per i fatti che in essa si accertano (la fallibilità soggettiva e lo stato di insolvenza). Quindi, una volta pronunciata la sentenza dichiarativa del fallimento (in base alle norme vigenti al momento di tale pronuncia), l’imprenditore fallito può essere chiamato a rispondere del reato di bancarotta (semplice o fraudolenta che sia). In questi casi (e nel caso dell’imprenditore ricorrente) non può dunque operare il principio di retroattività della norma più favorevole, individuata nella riforma della Legge Fallimentare che ha modificato i limiti di fallibilità.