Convegno di studi: il ddl anticorruzione “Severino”, legge 6.11.2012 n. 190

Iniziativa organizzata dall’Ordine degli Avvocati di Torino
Data di svolgimento: 8 novembre 2013
MAXI AULA 2- INGRESSO 15 – PALAZZO DI GIUSTIZIA – Torino


 

Relazione dell’Avv. Carlo CAVALLO

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locandina 8.11.13

PROBLEMATICHE IN TEMA Dl CORRUZIONE

 Le problematiche sollevate dalla legge n. 190/2012- la normativa sulla corruzione – sono numerose e non è possibile in questa sede trattarle tutte.

Le più importanti, a mio avviso, riguardano:

– quelle che derivano dall’introduzione della figura della corruzione per l’esercizio della funzione, che sostituisce la precedente corruzione per un atto d’ufficio;

– quelle concernenti i criteri per distinguere tra indebita induzione a dare o promettere e corruzione per l’esercizio della funzione;

– quelle legate alle modifiche apportate all’istigazione alla corruzione;

– quelle legate alle conseguenze nell’ambito di esercizio dei diritti della persona offesa in caso di concussione per induzione riqualificata come indebita induzione a dare o promettere.

 Vediamo:

  1. IL NUOVO DELITTO DI CORRUZIONE PER L’ESERCZIO DELLA FUNZIONE EX 318 C.P.

 La legge 190/2012 innanzitutto è intervenuta sulla corruzione impropria, ossia per atto conforme ai doveri di ufficio, già prevista dall’art. 318 c.p., sostituendola con la nuova fattispecie “Corruzione per l’esercizio della funzione”.

 

Nella pregressa formulazione al comma 1 si puniva il “pubblico ufficiale che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve per sé o per un terzo, in denaro o altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta o ne accetta la promessa” e, al comma 2, il pubblico ufficiale che “riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto”.

 

A seguito della riforma, la condotta incriminata è quella del “pubblico ufficiale che, in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa”.

La nuova formulazione ha comportato, dunque, l’accorpamento in un’unica fattispecie delle due precedenti forme di corruzione impropria, antecedente (già prevista dal comma 1) e susseguente (già prevista dal comma 2).

 

– RETRIBUZIONE: Una prima riflessione riguarda la scomparsa nel testo attuale del 318 del riferimento alla retribuzione quale legame tra prestazione del corrotto e dazione o promessa del corruttore. Raffrontando le due previsioni normative ante e post riforma, si coglie come, al posto della ricezione od impegno di ricevere una “retribuzione” per il compimento di un atto del proprio ufficio, sia ora prevista in modo generico la punibilità del pubblico ufficiale per la percezione o la promessa, di un indebito compenso, per sé o per altri.

Ora: al concetto più restrittivo se pensiamo all’applicazione concreta della norma di “retribuzione proporzionata all’atto compiuto o da compiere”, che costituiva requisito necessario per la configurabilità del reato, è stato sostituito un concetto più ampio, che prescinde da qualsivoglia comparazione tra la prestazione del privato e quella del funzionario.

E questo non è francamente un dato tranquillizzante non tanto per l’estensione della punibilità quanto per l’ampia discrezionalità che introduce nell’applicazione della norma.

Ricordo che proprio nella connotazione retributiva la giurisprudenza aveva ravvisato l’intento del legislatore di escludere dalla sfera applicativa dell’incriminazione de qua le situazioni non caratterizzate da un vero e proprio rapporto sinallagmatico tra la prestazione del corruttore e quella del corrotto:

 

una sentenza in proposito è

….. Sez. 6, Sentenza n. 30268 del 09/07/2002 Ud. (dep. 05/09/2002 ) Rv. 222746 che stabilisce:

Per la configurabilità del delitto di istigazione alla corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio non rileva la tenuità della somma di denaro o del valore della cosa offerta al pubblico ufficiale. Le piccole regalie d’uso possono escludere la configurabilità soltanto del reato di corruzione per il compimento di un atto di ufficio, previsto dall’art. 318 cod. pen., giammai quello di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio previsto dall’art. 319 cod.pen., perché solo nel primo caso è possibile ritenere che il piccolo donativo di cortesia non abbia avuto influenza nella formazione dell’atto stesso. (Fattispecie in cui la Corte ha ritenuto irrilevante, ai fini della sussistenza del reato, l’accertamento del valore di alcuni orologi, asseritamente con marchio non contraffatto, offerti al pubblico ufficiale per omettere una denuncia all’autorità giudiziaria, poiché la tenuità del valore, una volta accertata la falsità della marche degli orologi, non avrebbe comunque escluso il reato).

Sez. 6, Sentenza n. 3945 del 15/02/1999 Ud. (dep. 25/03/1999 ) Rv. 213886

In tema di reati di corruzione, la evidente sproporzione tra le somme versate e l’attività compiuta (omessa o ritardata) appare indice univoco, sulla base delle più elementari massime di esperienza, della contrarietà agli atti di ufficio di quanto compiuto (omesso o ritardato) dal pubblico ufficiale. Ed invero, il concetto di proporzione – da intendersi nel senso di mancanza di sproporzione manifesta tra la prestazione del privato e quella del pubblico ufficiale – riguarda soltanto la corruzione impropria di cui all’articolo 318 cod. pen. che richiama la “retribuzione non dovuta” per il compimento di un atto dell’ufficio, e non pure la corruzione propria prevista dall’articolo 319 cod. pen., relativa al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, in cui non si fa riferimento al concetto di retribuzione, essendo sufficiente che la datio sia correlata all’atto contrario ai doveri di ufficio che il pubblico ufficiale, per l’accordo intervenuto deve compiere o ha compiuto. Il principio di proporzione, infatti, in un delitto caratterizzato dall’inserirsi la condotta in un rapporto sinallagmatico fra le parti contrapposte deve valere non soltanto quando si negoziano atti di ufficio, ma anche quando l’accordo sia in vista del compimento di atti contrari ai doveri d’ufficio, dell’omissione o del ritardo di atti dell’ufficio; in questi ultimi casi, anzi, essendo nella natura delle cose che il risultato debba proporzionalmente elevarsi. Il tutto risulta dal diverso atteggiarsi del sinallagma nelle due ipotesi criminose, ferma restando la corrispettività “funzionale” di ciascuna di esse, comprovata dal fatto che, mentre l’articolo 318 cod. pen. fa riferimento ad “una retribuzione …non dovuta”, l’articolo 319 cod. pen. si limita a riferirsi alla ricezione di “danaro o altra utilità”.

L’elisione del concetto di retribuzione nella nuova norma novellata sembra adombrare un problema e cioè se, ai fini della configurabilità del reato, debba ancora oggi richiedersi o meno la proporzionalità della dazione o promessa.

 

La Cassazione non ha dubbi:

 

Il nuovo art. 318 cp., lungi dall’abolire, in tutto o in parte, la punibilità delle condotte già previste dal vecchio testo dell’articolo, ha al contrario determinato un’estensione dell’area di punibilità, in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto dell’ufficio, oggetto di ‘retribuzione’, il più generico collegamento, della ‘dazione o promessa di utilità’ ricevuta o accettata, all’esercizio (non temporalmente collocato e, quindi, suscettibile di coprire entrambe le situazioni già previste nei due commi del precedente testo dell’articolo) delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319 una fattispecie di onnicomprensiva ‘monetizzazione’ del munus pubblico, sganciata in sé da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo, pur nel contesto di un’interpretazione ragionevolmente estensiva, presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio.”

 

Cass. sez VI, 11 gennaio 2013 n 19189.

 

ESERCIZIO DELLA FUNZIONE O DEL POTERE: Un’altra distinzione tra la vecchia corruzione impropria ed la nuova corruzione per l’esercizio della funzione si rinviene nella soppressione del collegamento tra l’utilità ricevuta o promessa ed un atto dell’ufficio, da adottare o già assunto.

Il reato può, infatti, ritenersi integrato anche quando l’esercizio della funzione pubblica non si concretizzi in uno specifico atto.

Confrontiamo di nuovo i due testi di legge:

 

Art. 318.

Corruzione per l’esercizio della funzione. NUOVOArt. 318.

Corruzione per un atto d’ufficio.

VECCHIO 

Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a cinque anni.

 Il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Se il pubblico ufficiale riceve la retribuzione per un atto d’ufficio da lui già compiuto, la pena è della reclusione fino a un anno.”

 

Vediamo che si è ampliata la tipologia delle condotte rientranti nel delitto di corruzione impropria passiva, in conformità alle indicazioni suggerite dalla giurisprudenza e dalla dottrina sul significato dell’espressione “atto d’ufficio”, da intendersi come qualsiasi comportamento, attivo od omissivo che – pur se non in contrasto con specifiche norme giuridiche o con istruzioni di servizio – violi i doveri di fedeltà, d’imparzialità e di onestà a cui è tenuto chiunque svolga una pubblica funzione.

 

Quando e come la funzione ed i poteri si esplicano a prescindere da atti ?

Ad esempio, la “raccomandazione” rientra o no nel nuovo 318 c.p.?:

 

La Cassazione con la vecchia normativa aveva un indirizzo preciso. Diceva:

In tema di corruzione, non può essere ricondotta alla nozione di “atto di ufficio” la “segnalazione” o “raccomandazione” con cui un pubblico ufficiale sollecita il compimento di un atto da parte di altro pubblico ufficiale, trattandosi di condotta commessa “in occasione” dell’ufficio che, quindi, non concreta l’uso di poteri funzionali connessi alla qualifica soggettiva dell’agente.

Sez. 6, Sentenza n. 38762 del 08/03/2012 Cc. (dep. 04/10/2012 ) Rv. 253371 (Nella specie, la Corte ha escluso il delitto di cui all’art. 318, comma secondo, cod. pen. nei confronti del sindaco di un comune che aveva ricevuto un regalo per avere, in precedenza, sollecitato al direttore di una ASL il trasferimento di un sanitario).

 

Oggi un comportamento del genere rientra nel nuovo 318 c. p.?

 

In linea di massima il riferimento alle funzioni e ai poteri porta ad attribuire rilievo sia all’esercizio delle attribuzioni proprie del pubblico agente che allo svolgimento di attività comunque riconducibili all’ufficio o al servizio.

 

Questo come principio generale.

 

Ma che dire quando ci si trova in presenza di cospicui donativi, non giustificabili altrimenti che in relazione a un esercizio non istituzionale delle funzioni o dei poteri?

 

E’ configurabile il 318 c.p.?

 

Il quesito – che purtroppo non è frutto della fantasia, ove si pensi ai recenti scandali concernenti rilevanti quantità di denaro e altri vari sontuosi regali corrisposti a soggetti operanti ai livelli più elevati della politica – ha, credo, risposta negativa poiché, se si accerta che i donativi sono destinati a compensare attività di “protezione” o di «prevenzione e risoluzione di inconvenienti», da svolgersi presso uffici o ministeri diversi da quello di pertinenza del beneficiario della dazione, in quanto in questo caso deve escludersi la loro riferibilità all’esercizio delle funzioni o dei poteri.

Come ripetutamente affermato dalla Suprema Corte, infatti,

 

«il delitto di corruzione, rientrando nella categoria dei reati propri funzionali, richiede che l’atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientri nella competenza o nella sfera d’influenza dell’ufficio al quale appartiene l’ipotetico soggetto corrotto, nel senso che occorre che sia espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercitata dal medesimo, requisito non ravvisabile nell’intervento del pubblico ufficiale che non implichi l’esercizio di poteri istituzionali propri del suo ufficio e non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, ma sia diretto ad incidere nella sfera di attribuzione di un pubblico ufficiale terzo, rispetto al quale il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale» Cass. 38762/2012                                                                                                              

 

Certamente la nuova fattispecie non si può ritenere una mera riformulazione sintetica della corruzione impropria.

 

Attenzione: il richiamo della norma all’esercizio delle funzioni o dei poteri non lascia desumere in automatico che debba trattarsi di un esercizio legittimo, svolto in presenza dei presupposti e con l’osservanza dei doveri che ne circoscrivono ambito e contenuti.

Anzi, la genericità dell’espressione legislatore consente di ricomprendere sia l’attività conforme ai doveri d’ufficio ed agli scopi istituzionali, che quella posta in essere in violazione di questi doveri o vanificando la finalità per cui il potere o la funzione sono attribuiti.

 

Direi che rientrano nel 318 c.p. attuale le condotte di asservimento della funzione pubblica agli interessi del privato.

Qui, penso, è da escludere la configurabilità dell’art. 319 c.p. per l’assenza di un accordo avente ad oggetto la compravendita di uno o più atti dell’ufficio, venendo piuttosto in rilievo la disponibilità dell’intraneus a operare in favore dell’extraneus: ciò che appunto integra l’art. 318 c.p.

 

Altra osservazione: il corruttore, in forza del richiamo di cui all’art. 321 c.p., può essere punito anche per la corruzione susseguente: siamo in presenza di un’ipotesi di nuova incriminazione, insuscettibile di applicazione retroattiva.

 

L’innovazione apportata dalla 190/2012 costituisce un rafforzamento della tutela, poiché, da un lato, prescindendo dal riferimento all’atto d’ufficio determinato, colpisce il grave fenomeno della c.d. iscrizione al libro paga e, dall’altro, io credo, alleggerisce l’onere probatorio a carico dell’accusa: per la difesa diventa tutto più difficile!

 

A questo si può tentare qualche osservazione di riepilogo: l’art. 318 c.p. nella sua attuale formulazione delinea l’ipotesi generale di qualsiasi forma di corruzione, idonea a ricomprendere prestazioni di natura diversa: favoritismi, compimento di specifici atti legittimi o illegittimi e l’asservimento della funzione alle esigenze del corruttore.

 

Nel caso in cui l’accusa riesca a dimostrare che la contrattazione haa avuto ad oggetto il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero l’omissione o il ritardo di un atto dell’ufficio, allora il fatto deve inquadrarsi nella corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, di cui all’art. 319 c.p. (corruzione c.d. propria).

 

E, nell’ipotesi in cui il fatto venga commesso “per favorire o danneggiare una parte in un processo civile, penale o amministrativo”, deve continuare a trovare applicazione l’art. 319-ter c.p. (corruzione in atti giudiziari).

 

In questo modo l’impianto normativo si struttura intorno alla fattispecie generale della corruzione per l’esercizio delle funzioni, di cui la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio e la corruzione in atti giudiziari costituiscono una species.

 

Detto in altro modo: la compravendita di uno specifico atto contrario al dovere d’ufficio (ovvero dell’omissione o ritardo di un atto dovuto) integra un’ipotesi particolare della più generale compravendita della funzione del pubblico agente, che si realizza, invece, nel caso in cui l’agente venga impropriamente compensato in relazione all’esercizio delle sue funzioni dei suoi poteri.

Dove porta questo ragionamento?

 

Porta inevitabilmente a ritenere che un certo filone giurisprudenziale che escludeva la necessaria individuazione dell’atto per configurare la corruzione propria oggi non possa essere ancora applicabile alla corruzione propria, tutta incentrata sulla reciprocità tra dazione (o promessa di utilità) e compimento dell’atto.

Anteriormente alla riforma, una consolidata giurisprudenza affermava che,

 

«ai fini della prova del delitto di corruzione propria, l’individuazione dell’attività amministrativa oggetto dell’accordo corruttivo può ben limitarsi al genere di atti da compiere, sicché tale elemento oggettivo deve ritenersi integrato allorché la condotta presa in considerazione dall’illecito rapporto tra privato e pubblico ufficiale sia individuabile anche genericamente, in ragione della competenza o della concreta sfera di intervento di quest’ultimo, così da essere suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli, non preventivamente fissati o programmati, ma pur sempre appartenenti al genus previsto » Cass. Pen. 30058/012.

 

Oggi mi pare che le cose siano mutate.

 

A sua volta, la corruzione in atti giudiziari deve ritenersi speciale rispetto alla corruzione per l’esercizio delle funzioni, nonché alla corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Altro aspetto assai importante: posto che l’atto d’ufficio commesso dal pubblico agente è una entità ricompresa nella più ampia accezione dell’”esercizio delle funzioni e dei poteri”, tra la pregressa e la nuova previsione dell’art. 318 c.p. può ravvisarsi un rapporto di continuità normativa, con conseguente applicabilità quoad poenam, ex art. 2, comma 4, c.p., per le condotte tenute anteriormente all’entrata in vigore della riforma, della previgente disposizione, in quanto più favorevole.

La pena è stata elevata, infatti, ad un anno di reclusione nel minimo ed a cinque anni nel massimo.

 

Concludendo sul punto, le originarie ipotesi di corruzione impropria hanno subito:

 

  • un innalzamento dei limiti edittali e l’equiparazione del trattamento punitivo con l’ipotesi di asservimento delle funzioni (c.d. corruzione sistemica);
  • l’implicita omologazione tra opzione antecedente e susseguente;
  • l’incriminazione anche della corruzione impropria attiva susseguente;
  • il venir meno del riferimento al concetto di retribuzione, con conseguente plausibile riconduzione al fatto tipico della dazione -verso un atto conforme ai doveri dell’ufficio – anche di mere regalie e modesti donativi.

 

 

  1. RAPPORTI TRA IL NUOVO DELITTO DI CUI ALL’ART. 319-QUATER C.P. E LA CORRUZIONE.

             Da più parti si sostiene che la previsione di cui all’art. 319-quater c.p. si pone su una linea intermedia tra corruzione e concussione o, se si vuole, su una posizione più attigua al reato di corruzione.

 

Ad oggi la Suprema Corte di Cassazione ha chiarito quali sono gli ambiti differenziali fra il delitto di induzione e quello di istigazione alla corruzione: in pratica l’istigazione alla corruzione presuppone – dice la Corte – un rapporto paritario fra i soggetti che manca nel delitto di induzione indebita, caratterizzata sempre da un rapporto di prevaricazione del pubblico agente.

 

La distinzione fra i delitti di cui agli artt. 322 (o 319) e 319-quater c.p. appare chiara anche quando la condotta del pubblico agente abbia la forma della sollecitazione che, comunque, sottende un abuso di funzioni o di poteri da parte del pubblico agente.

 

L’elemento di differenza tra le due figure deve cogliersi nel tipo di rapporto che intercorre fra le volontà dei soggetti, che nella corruzione è paritario ed implica la libera convergenza delle volontà verso un comune obiettivo illecito, mentre nella concussione per induzione esprime la volontà induttiva dell’agente pubblico che condiziona il libero esplicarsi della volontà del privato, che aderisce per evitare pregiudizievoli pretese del primo.

 

A fronte della dazione o promessa di denaro o altra utilità in relazione all’esercizio delle funzioni del pubblico agente, si dovrà distinguere a seconda che il privato si sia determinato al pagamento o alla promessa perché versante in una situazione di soggezione integrante il delitto di induzione indebita, ovvero in seguito a una negoziazione su un piano di parità: risulterà applicabile, allora, l’art. 319 c.p. o l’art. 318 c.p., a seconda che l’accordo abbia o meno ad oggetto una condotta del pubblico funzionario contraria ai suoi doveri d’ufficio.

 

  1. LE MODIFICHE ALL’ART. 322 C.P.

             Le modifiche introdotte all’art. 318 c.p. hanno determinato l’adeguamento della previsione dell’art. 322 c.p. (istigazione alla corruzione), i cui commi 1 e 3 prima della riforma contemplavano unicamente la condotta di corruzione impropria.

Il comma 1 ora reprime il fatto di chiunque offra o prometta denaro o altra utilità non dovuti ad un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, qualora la promessa o l’offerta non sia accettata, con la pena prevista dal comma 1- che poi sarebbe unico comma – dell’art. 318 c.p., ridotta di un terzo.

 

La stessa pena, in base al comma 3, si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri.

 

Nel suo adattarsi al nuovo art. 318 c.p., non si richiede più che l’offerta – poi rifiutata – sia strumentale al compimento di un atto, ma all’esercizio delle funzioni o dei poteri.

 

Anche qui, tra i soggetti destinatari dell’istigazione, non è più previsto che l’incaricato di pubblico servizio rivesta la qualità di pubblico impiegato.

 

Questa eliminazione comporta un ampliamento dei soggetti a cui può essere formulata l’indebita offerta o promessa di denaro o di altra utilità.

 

Inoltre, rispetto alle condotte commesse prima dell’entrata in vigore della Legge n. 190/2012, ai sensi dell’art. 2, comma 1, c.p., non potranno ritenersi responsabili coloro che abbiano istigato gli incaricati di pubblico servizio sprovvisti della qualità di pubblici impiegati: allora era necessaria!

Identiche valutazioni di diritto intertemporale riguardano le modifiche apportate al comma 3 dell’art. 322 c.p. (ed all’art. 318 c.p., come richiamato nell’art. 320, comma 1, c.p.), non risultando più i predetti tra i soggetti attivi del reato.

 

Sotto il profilo dell’elemento materiale, restano incertezze interpretative sul concetto di “sollecitazione”, che può essere inteso come richiesta insistente, ovvero come un chiedere per ottenere, senza, però, pressioni, suggestioni o velate minacce, integrando altrimenti un tentativo di concussione.

Sollecitazione, da parte del pubblico agente, che deve, comunque, essere seria e suscettibile di accoglimento da parte del privato.

 

  1. LA RIQUALIFICAZIONE DELLA CONCUSSIONE PER INDUZIONE IN INDEBITA INDUZIONE ED I DIRITTI DELLA PERSONA OFFESA

Sent.: Cass. Pen., Sez. VI, ud. 25.1.2013, Pres. Agrò, Rel. Fidelbo,

Segnalo, infine, che con una decisione resa nell’udienza del 25 gennaio 2013 la Sesta Sezione della Corte di Cassazione ha esaminato e risolto in senso affermativo la seguente questione: “se, in caso di riqualificazione del delitto di concussione – commesso prima dell’entrata in vigore della legge n. 190/2012 – nel nuovo reato di induzione indebita previsto dall’art. 319 quater c.p., il soggetto ‘concusso’, che si sia regolarmente costituito parte civile nel processo per l’originario reato, conservi la sua legittimazione all’azione civile per le restituzioni e il risarcimento del danno”.

 

            Questo il ragionamento:il “concusso”, che in base al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole non può assumere la veste di imputato per il nuovo reato di cui all’art. 319-quater, comma 2 c.p., conserva la legittimazione all’azione civile nel processo per l’originario reato di concussione in virtù del principio generale secondo cui se un fatto costituisce illecito civile nel momento in cui è stato commesso, su di esso non influiscono le successive vicende della punibilità – relative cioè alla rilevanza penale di quel fatto.

 

E’ un principio già presente nella giurisprudenza di legittimità, che ne ha fatto applicazione in relazione alla speculare ipotesi dell’abolitio criminis affermando che “al diritto  del danneggiato dal reato al risarcimento del danno non si applicano i principi attinenti la successione nel tempo delle leggi penali, fissati dall’art. 2 c.p., ma il principio stabilito dall’art. 11 delle preleggi“: agli effetti civili la legge, anche quella penale, non dispone che per l’avvenire, e in ogni caso non ha dunque effetto retroattivo (cfr. Cass., S.U., 21 gennaio 1992, Dalla Bona, CED 190006, con la quale si è affermato che il diritto al risarcimento del danno permane anche in caso di abolitio criminis. Più di recente v., tra le altre, Cass., Sez. V, 24 maggio 2005, n. 28701, Romiti, CED 231866).