Redazione dei Piani Anticorruzione ex L. 190/2012

di Avv. Carlo Cavallo


Relazione al convegno di studi presso l’A.S.L. Piemonte (Torino, 20.1.2014) 

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  1. Premessa.

Oggetto della presente relazione sono le nuove regole preventive in materia anticorruzione, introdotte dalle legge 6 novembre 2012 n. 190 e, in particolare, i seguenti profili: i) il meccanismo di attribuzione della responsabilità amministrativa in chiave preventiva, introdotta dall’art. 1, comma 12, della legge; ii) tecniche di redazione del piano anticorruzione; iii) contenuti del piano anticorruzione.

 

 

  1. Il sistema previsto dal d. lgs. 231/2001.

 

Gli strumenti, individuati dalla legge 190, per combattere la corruzione amministrativa, sono tanti e variegati: si pensi alla costituzione dell’Autorità nazionale anticorruzione.

Tra le diverse novità, ve ne è una di immediato interesse: l’introduzione di un sistema di attribuzione della responsabilità, per molti versi, analogo (seppure diverso) a quello della responsabilità delle persone giuridiche previsto dal d. lgs. n. 231 del 2001.

Per comprendere tale nuovo sistema occorre, quindi, prima guardare da vicino il sistema 231 e poi esaminare la nuova disciplina anticorruzione.

La finalità della disciplina sancita dal d. lgs. n. 231 del 2001 (sulla responsabilità amministrativa degli enti) è apprestare un’adeguata risposta alla criminalità dell’organizzazione pluripersonale. Tale responsabilità comporta la soggezione dell’ente a sanzioni interdittive e pecuniarie nel caso di commissione di determinati reati da parte di alcuni soggetti operanti nello stesso. Tali soggetti devono rivestire una “posizione apicale” nell’organizzazione dell’ente o devono esservi inseriti in posizione subordinata (rispetto agli apicali). L’ente è responsabile nell’ipotesi di perpetrazione di tali reati nel suo interesse, da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione, di direzione e dalle persone sottoposte alla vigilanza e al controllo delle prime.

Il meccanismo di attribuzione della responsabilità, pertanto, è il seguente: l’apicale commette il reato presupposto e (anche) l’ente – al ricorrere di alcune condizioni – risponde. Il relativo criterio di imputazione soggettiva della responsabilità ex 231 è la colpa di organizzazione, quale espressione di scelte di politica aziendale errate o quantomeno avventate.

Fino alla legge 190 del 2012, da tale sistema di responsabilità erano esenti (solo) gli enti pubblici non economici. Vi erano esclusi lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni, gli altri enti pubblici non economici, e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.

In qualche modo, la legge 190 del 2012 ha rimediato a questa zona franca di cui godevano gli enti pubblici non economici. Ha introdotto, infatti, un meccanismo di allocazione della responsabilità analogo, seppure diverso, rispetto a quello ex d. lgs. n. 231 del 2001.

 

Il tutto parte dalla nomina, nell’ambito delle pubbliche amministrazioni, del responsabile della prevenzione della corruzione. L’art. 1, co. 7, della legge 190 stabilisce che “l’organo di indirizzo politico individua, di norma tra i dirigenti amministrativi di ruolo di prima fascia in servizio, il responsabile della prevenzione della corruzione. Negli enti locali, il responsabile della prevenzione della corruzione è individuato, di norma, nel segretario, salva diversa e motivata determinazione”. Tale soggetto deve: i) elaborare la proposta di piano di prevenzione, che deve essere adottato dall’organo di indirizzo politico di ciascuna amministrazione (art. 1, co. 8), i cui contenuti, che caratterizzano anche l’oggetto dell’attività del responsabile, sono individuati nel co. 9 dell’art. 1; ii) definire procedure appropriate per selezionare e formare i dipendenti destinatati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione (art. 1, co. 8); iii) verificare l’efficace attuazione del piano e la sua idoneità (art. 1, co. 10, lett. a); iv) proporre modifiche al piano in caso di accertamento di significative violazioni o di mutamenti dell’organizzazione (art. 1, co. 10, lett. a); v) verificare, d’intesa con il dirigente competente, l’effettiva rotazione degli incarichi negli uffici preposti allo svolgimento delle attività nel cui ambito è più elevato il rischio che siano commessi reati di corruzione (art. 1, co. 10, lett. b); vi) individuare il personale da inserire nei percorsi di formazione sui temi dell’etica e della legalità (art. 1, co. 10, lett. e).

 

Ebbene: nel caso di perpetrazione di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, risponde il responsabile anticorruzione. E vi risponde a diverso titolo: i) erariale; ii) eventualmente civile; iii) disciplinare; iv) di responsabilità dirigenziale (impossibilità di rinnovo dell’incarico e, nei casi più gravi, revoca dell’incarico e recesso dal rapporto di lavoro).

 

L’analogia con il meccanismo 231 è evidente. Certo, vi sono differenze significative tra responsabilità ex 231 e quella prevista da tale norma: è diverso il giudice (lì giudice penale, qui Corte dei conti); la natura dell’illecito (lì penale, qui erariale e disciplinare); il titolo di responsabilità (lì dolo in ragione della natura necessariamente dolosa dei reati corruttivi, qui tipicamente colposa). Soprattutto, è differente il destinatario della responsabilità da colpa di organizzazione: nella 231 è l’ente; nel nostro caso è una persona, vale a dire il responsabile anticorruzione.

 

 

  1. Il meccanismo di esenzione.

 

Come illustrato, tanto la responsabilità della 231 quanto quella della 190 si fondano su un meccanismo attribuzione della responsabilità. Abbiamo esaminato l’attribuzione. Tocca, ora, all’esenzione.

Si inizia, ancora una volta, dal richiamo al sistema 231, che evidentemente il legislatore ha assunto a punto di riferimento.

In questo schema, l’ascrizione all’ente della responsabilità avviene sulla base di una – generale e strutturale – deficienza organizzativa, desumibile dalla mancata adozione dei modelli di prevenzione e protezione dell’azienda finalizzati ad impedire i rischi paventati. Il modello deve prevedere – in relazione alla natura, alla dimensione dell’organizzazione e al tipo di attività svolta – misure idonee a garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio della perpetrazione dei reati presupposto.

 

Esaminiamo il meccanismo previsto dalla legge 190. Il responsabile anticorruzione non risponde laddove abbia predisposto ed efficacemente attuato un piano anticorruzione idoneo. Il Dipartimento della funzione pubblica predisporrà un Piano Nazionale Anticorruzione (che poi verrà approvato dalla C.I.V.I.T. sulla base delle linee guida del Comitato) che conterrà anche alcune indicazioni per l’elaborazione dei piani triennali di prevenzione da parte delle amministrazioni. L’adozione del piano triennale di prevenzione della corruzione (art. 1, co. 8 della legge) avviene da parte dell’organo di indirizzo politico, su proposta del responsabile, entro il 31 gennaio di ogni anno e deve essere trasmesso al Dipartimento della funzione pubblica19.

Anche il piano anticorruzione, quindi, come i compliance program, gioca il ruolo di strumento di “organizzazione dell’organizzazione”.

Si arriva a quello che può essere considerato il tallone d’Achille della nuova normativa: l’idoneità del piano. Il rischio è duplice: da un lato, fare del piano un semplice ed ennesimo adempimento burocratico, privo di una reale efficacia preventiva; dall’altro, affidare all’organo giudiziale, di volta in volta chiamato a pronunciarsi, la totale discrezionalità nel verificarne l’effettiva idoneità.

Del resto, l’esperienza in materia di modelli 231 è indicativa. Come attestano le statistiche giudiziarie, nella maggior parte dei casi in cui è stato chiamato a esaminare i modelli 231, il giudice penale ne ha ravvisato la sostanziale inadeguatezza. Il motivo è quasi sempre lo stesso: troppo astratti; tanta attenzione alle linee di condotta primarie (i protocolli); sostanziale assenza di quella necessaria formalizzazione dei comportamenti concreti da tenere per esplicare una reale efficacia preventiva (le procedure cucite su misura sull’ente).

Anche a proposito del piano anticorruzione incombe senz’altro il rischio dell’astrattezza. Fogli e fogli pieni di affermazioni astratte e svincolate dalla realtà concreta dell’ente. Ne deriva l’interrogativo più complicato: come redigere un piano anticorruzione avente una reale efficacia preventiva?

 

 

  1. Il responsabile anticorruzione.

 

Soffermiamoci sulla figura del responsabile della prevenzione della corruzione. Si tratta di un incarico aggiuntivo a quello di dirigente già titolare di incarico dirigenziale di livello generale. Rientra nella discrezionalità dell’amministrazione decidere, nei limiti delle disposizioni in materia di dotazioni organiche e nell’ambito del proprio ordinamento, di dedicare un apposito ufficio allo svolgimento della funzione di responsabile.

La nomina del responsabile è disposta con provvedimento dell’organo di indirizzo politico. In assenza della fissazione di un termine da parte della legge le amministrazioni sono tenute a provvedere tempestivamente alla nomina del responsabile anticorruzione. Per scongiurare che la precarietà del suo incarico possa compromettere una eventuale iniziativa penetrante nei confronti dell’organizzazione amministrativa, il ruolo di responsabile ex legge 190 deve essere ricoperto da un dirigente che si trovi in una posizione stabile.

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha previsto la possibilità di individuare referenti per la corruzione che possano operare nelle strutture dipartimentali o territoriali, escludendo, invece, la possibilità di nomina di più di un responsabile nell’ambito della stessa amministrazione. Tali referenti potrebbero, infatti, contemperare l’intento del legislatore di affidare la nomina di responsabile ad un soggetto unico con la complessa connotazione dell’organizzazione amministrativa, anche in considerazione dell’articolazione per centri di responsabilità.

In ogni caso, il responsabile ex legge 190 è l’unico riferimento per l’implementazione dell’intera politica di prevenzione e l’unico responsabile per gli illeciti che potrebbero venire in essere. Pertanto, allo stesso deve essere assicurato un supporto adeguato di risorse umane, strumentali e finanziarie (nei limiti della disponibilità di bilancio dell’amministrazione). Si richiede, ad esempio, che il responsabile sia assistito da personale altamente qualificato e preventivamente formato.

Nell’ipotesi di designazione a responsabile del dirigente titolare di un incarico ex art. 19, co. 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, è necessaria, inoltre, l’individuazione delle risorse che possono essere utilizzate per lo svolgimento dell’incarico.

Il responsabile della prevenzione deve raccordarsi con gli altri organi e figure all’interno dell’amministrazione. E’ chiamato, infatti a svolgere un ruolo di impulso che presuppone: i) la trasparenza nell’organizzazione amministrativa, con evidenza delle responsabilità per procedimento, processo e prodotto; ii) il coordinamento tra le unità organizzative e la loro conformità all’input ricevuto dal responsabile.

 

 

  1. Cosa non scrivere nei piani anticorruzione.

 

Prima di verificare cosa il piano anticorruzione deve contenere, occorre dire cosa sicuramente lo stesso non deve contenere.

Molti modelli, infatti, hanno quale componente centrale – o comunque preponderante – la spiegazione della responsabilità 231, della funzione del modello o, addirittura, dei reati presupposto. Interi corpi del modello 231 sono composti, spesso, da indicazioni esplicative di come il legislatore abbia inteso disciplinare la responsabilità delle persone giuridiche.

Si ritiene che il piano non debba assolutamente contenere quelle lunghissime premesse sullo scopo e sulla finalità della legge che tanto connotano, in senso negativo, alcuni modelli 231. Questi inutili appesantimenti, infatti, fanno sorgere il ragionevole dubbio che si voglia scambiare la quantità con la qualità: scrivere pagine e pagine di cose inutili e scontate perché non si vogliono affrontare i nodi critici.

Analogamente inutile è analizzare i reati. Per questo bastano e avanzano i molti (spesso troppi) libri e scritti giuridici.

 

Il piano dovrà concentrarsi, così, su aspetti precisi: la sua reale efficacia preventiva dipenderà soprattutto dall’elaborazione – da parte delle p.a. – di procedure concrete, ritagliate sulla realtà degli uffici e sulle loro prassi.

 

 

  1. Come redigere il piano: la fase della mappatura dei rischi.

 

Abbiamo visto cosa non scrivere nel piano anticorruzione. Vediamo ora cosa scrivere.

 

Anche a questo riguardo, l’esperienza 231 può essere utile.

La relativa metodologia prevede lo svolgimento di due fasi essenziali: mappatura del rischio; gestione del rischio.

 

La mappatura del rischio, a sua volta, si articola nelle fasi seguenti: i) identificazione delle aree a rischio; ii) analisi e valutazione del rischio; iii) enucleazione dei processi sensibili.

 

La gestione del rischio, invece, si compone di tre fasi: i) fissazione del protocolli; ii) specificazione dei protocolli tramite procedure; iii) fissazione del flusso informativo; iv) identificazione dei meccanismi di aggiornamento del piano anticorruzione.

 

A grandi linee, si può utilizzare la medesima articolazione.

 

Iniziamo dall’identificazione delle aree a rischio. Alcune di tali aree sono preidentificate dal comma l6 dell’art. 1 della legge 190: autorizzazioni, concessioni, gare; ausili pecuniari pubblici e, in genere vantaggi a soggetti pubblici e privati; concorsi pubblici. A ben vedere, tali categorie sono così generiche da essere quasi inutili.

L’unico reale valore aggiunto è la precisazione secondo la quale è area sensibile l’attribuzione di vantaggi non solo ai privati, ma anche ai soggetti pubblici. Il che conferma il principio secondo cui vi è illegalità non solo quando ad essere stato avvantaggiato è un soggetto privato, ma anche nel caso di vantaggi indebiti per gli enti pubblici. Per esempio, un partenariato pubblico – pubblico effettuato esorbitando dai rigorosi presupposti fissati, anche di recente, dalla Corte di Giustizia, può comportare vantaggi immediati (si affida, per esempio, un servizio senza gara con risparmi di tempi e costi per l’ente pubblico affidante e un vantaggio economico per l’enete pubblico affidatario). Ma tale vantaggio è indebito, poiché sotto lo schermo dell’art. 15 della legge n. 241 del 1990 si sottrae al mercato (e al relativo confronto competitivo) un’attività che dovrebbe rientrarvi. Considerazioni analoghe valgono per l’affidamento tra amministrazioni aggiudicatrici ai sensi dell’art. 19, comma 2, del codice dei contratti pubblici che avvenga al di fuori dei rigidi presupposti previsti da tale norma (affidamento in virtù di un diritto esclusivo, comunitariamente legittimo, di cui gode l’affidatario). In questo caso, non ci si deve illudere dell’eventuale risparmio, perché la contropartita in termini di legalità lasciata sul campo è maggiore. Basta solo considerare che in un caso di questo tipo (affidamento ex art. 19, comma 2, senza i presupposti per tale norma) non viene osservata la disciplina sulla tracciabilità dei flussi finanziari derivanti da contratti pubblici (nel caso degli affidamenti ex art. 19 la disciplina sulla tracciabilità non deve essere osservata; ma ciò, ovviamente, presuppone la sussistenza di tutti i presupposti per l’applicazione di tale norma); vale a dire un delicatissimo obbligo imposto dalla normativa antimafia.

Ma uno dei casi più frequenti è certamente quello dell’affidamento del servizio locale. Ad oggi, com’è noto, sussistono numerosi affidamenti diretti che, tuttavia, sono disposti a favore di soggetti partecipati (società a partecipazione pubbliche, in genere ex municipalizzate) che non hanno i requisiti dell’in house. Che l’affidamento continui a favore della partecipata, probabilmente è vantaggioso anche nei confronti dell’ente pubblico partecipante. Ma ad essere sacrificato è il mercato, gli utenti e la corretta gestione del servizio. Gli artifici spesso utilizzati dagli enti pubblici per rinviare le gare si pongono, così, in una situazione di illegalità. Situazione da cui, non a caso, sono scaturite vicende penali.

 

Ovviamente, poiché ogni piano deve essere cucito su misura dell’ente, le aree a rischio saranno profondamente diverse e dipendono dalle funzioni istituzionali proprie dell’ente. Un ente competente in materia di bonifiche dovrà considerare aria a rischio il settore ambientale.

 

Le Regioni, aventi competenza primaria in materia sanitaria, dovranno puntare i riflettori, tra l’altro, sugli accordi contrattuali e gli accreditamenti.

 

Identificate le aree a rischio, si passa a una seconda fase: l’identificazione dei processi che si svolgono all’interno delle rispettive aree a rischio. Per processo si intende un’attività complessa che ricomprende una serie di operazioni che devono essere individuare e ordinate in maniera standardizzata.

Vi è un generale processo appalti e, all’interno di questo, vi è il delicatissimo processo di identificazione dell’oggetto dell’appalto da affidare. Occorre non lasciarsi indurre dalla tentazione di identificare i processi con i procedimenti amministrativi. I secondi sono formalizzati. I primi riguardano il modo concreto in cui l’amministrazione ordinariamente agisce (le prassi interne ecc).

 

Rispetto a ogni processo, occorrerà: i) individuare le attività nell’ambito delle quali è più elevato il rischio corruzione; ii) valutare il diverso grado di esposizione degli uffici al rischio corruzione.

 

Si arriva a uno snodo importante. Sulla base di quali parametri effettuare questo tipo di valutazione? Come decidere che un processo è più rischioso di un altro o che un ufficio è più esposto di un altro?

Anzitutto, occorrerà fare riferimento alle “norme e metodologie comuni per la prevenzione della corruzione” emanate, in base al comma 4, lett. c) dell’art. 1 dal Dipartimento della funzione pubblica. Tra questi criteri – la cui elaborazione è di pertinenza del Dipartimento – vi sono quelli “per assicurare la rotazione dei dirigenti nei settori particolarmente esposti alla corruzione e misure per evitare sovrapposizioni di funzioni e cumuli di incarichi nominativi in capo ai dirigenti pubblici anche esterni” (art. 1, comma 5, lett. e). Occorrerà, poi, attenersi puntualmente alle linee guida contenute nel piano nazionale anticorruzione. Utile, se non necessario, per gli enti locali è il supporto tecnico e informativo che il Prefetto deve fornire a tali enti (art. 1, comma 6) ai fini della redazione del piano anticorruzione.

Oltre a meccanismi per così dire esterni, esistono metodiche che il Responsabile anticorruzione può utilizzare per valutare i rischi?

Il tema diventa spinoso. A rigore, infatti, non necessariamente tale ambito è lasciato all’intuizione o all’esperienza (che in ogni caso sono essenziali). Occorre considerare, infatti, che il campo della valutazione dei rischi è oggetto di un’apposita disciplina scientifica denominata scienza della sicurezza. Poiché l’eliminazione totale del rischio è quasi sempre impossibile (data l’incidenza di variabili imponderabili), la scienza della sicurezza si concentra sulle modalità di minimizzazione del c.d. rischio residuo (vale a dire del rischio ineliminabile). Tale minimizzazione avviene tramite il c.d. ciclo virtuoso della sicurezza: i) analisi(studio legislativo, normativo, ambientale, personale, professionale, delle attività e dei processi); ii) misure (suddivise in misure di prevenzione e di protezione);iii) gestione tramite aggiornamenti, formazione, informazione, manutenzione, verifiche, esercitazioni, piani di sicurezza e adeguamenti.

 

A grandi linee, la stessa legge 190 richiama il ciclo della sicurezza

 

Alcuni parametri che il responsabile anticorruzione potrebbe prendere in considerazione ai fini della predisposizione di un piano sono: la stima della possibilità o probabilità del fatto corruttivo in relazione a determinati processi; la gravità di eventuali fatti corruttivi rispetto ad altri. Ad esempio, in una situazione di evidente confusione normativa, è chiaro che il tema dell’affidamento della gestione del ciclo dei rifiuti si presta, ex ante, a una probabilità non irrilevante di rischio corruzione (per la rilevanza economica del valore della commessa, per la possibilità alta di avvantaggiare uno dei soggetti che detengono impianti di smaltimento, per l’eventuale pressione che potrebbe pervenire dal gestore esistente ecc.). Al contempo, l’eventuale impatto dell’illegalità in tale ambito è di estrema gravità (perché si tratta di un servizio essenziale, perché la sua istituzione prevede una programmazione pluriennale ecc.). Gli uffici dell’ente responsabili dell’affidamento della gestione dei rifiuti sono esposti, quindi, a un rischio elevato.

Effettuando tale valutazione, il piano anticorruzione dovrà così identificare: i) le aree a rischio; ii) i processi sensibili; iii) il diverso livello di esposizione degli uffici alla corruzione.

 

 

  1. La predisposizione dei protocolli.

 

Ultimata la fase di mappatura e valutazione del rischio, la diagnosi, occorrerà passare alla cura, che si articola in due fasi: protocolli e procedure.

 

Il protocollo è un criterio riguardante la modalità di svolgimento dell’attività complessa. Si tratta di una linea di condotta primaria, desunta dalla disamina del processo. Il protocollo si riconnette alla valutazione del rischio: al protocollo dovrebbe potere essere associato un problema specifico. Normalmente i protocolli sono espressi tramite linee guida di primo livello e regole di condotta di secondo livello.

Appartengono alla prima categoria i principi generali in materia di formazione, attuazione e controllo delle decisioni idonei a prevenire il rischio corruzione. E’ principio generalissimo, per esempio, quello in base al quale l’interesse pubblico che gli uffici devono perseguire non è solo l’interesse particolare dell’ente (cui appartengono gli uffici) ma quello generale. E’, ancora, principio generale l’obbligo di informazione piena del responsabile anticorruzione, oppure la trasparenza organizzativa, la divisione dei compiti ecc.

Poi vi sono i protocolli di secondo livello. Per esempio, un utile protocollo è quello degli affidamenti senza gara: l’ente deve sapere con certezza ex ante quando e entro che limiti può affidare senza gara. Considerazioni analoghe valgono per i protocolli attinenti all’eventuale compensazione per servizi pubblici a fallimento del mercato.

Di particolare importanza sono, poi, i protocolli informativi, vale a dire il flusso informativo da e per il responsabile anticorruzione.

Un protocollo rilevante – una sorta di autodisciplina – é quello avente ad oggetto i rapporti tra ente pubblico e operatori economici.

Occorrerà predisporre appositi protocolli di monitoraggio e principi di trasparenza. L’ente deve senz’altro sentire il mercato, acquisire interessi. Ma lungi dal farlo nella penombra dei gabinetti politici (o in sedi remote), lo deve fare alla luce del sole e in trasparenza, fissando (poche e chiare) regole procedurali valide per tutti. Chi vorrà formulare una proposta di finanza di progetto, di un partenariato istituzionale, di compartecipazione di un’infrastruttura pubblica potrà senz’altro farlo; ma secondo regole e criteri predeterminati.

Si ritiene questo un requisito essenziale di un piano anticorruzione che, tra l’altro, finalmente possa (virtualmente) dichiarare guerra ai numerosi faccendieri e, al contempo, aprirsi e fornire opportunità al mercato e alla meritocrazia.

Vi possono essere, poi, protocolli di carattere premiale. Per esempio, valorizzando il ruolo della legalità, l’ente potrebbe decidere – tramite protocolli – di inserire tra i criteri di aggiudicazione nei (prossimi bandi) un punteggio aggiuntivo per le imprese più che pulite, che abbiano per esempio acquisito un elevato rating di legalità o che abbiano sottoscritto protocolli di legalità.

 

 

 

  1. La predisposizione delle procedure.

 

I protocolli vanno, poi, specificati e contestualizzati tramite procedure. La procedura è la modalità con cui i criteri contenuti nel protocollo devono essere tradotti. Si tratta, quindi, di una formalizzazione di una sequenza di comportamenti allo scopo di standardizzare e orientare i processi (soprattutto i processi sensibili) in chiave anticorruzione.

Il meccanismo del piano anticorruzione, pertanto, è il seguente: i) esame del processo; ii) verifica del rischio; iii) valutazione del rischio; iv) elaborazione del protocollo; v) specificazione con la procedura.

 

La procedura è spesso la fase più lacunosa. Nei casi in cui la magistratura aveva considerato inidoneo il modello 231, la sostanziale ragione era la mancanza, non dei protocolli, ma dei processi.

 

E’ realistico pensare che questo problema si porrà anche per il sistema preventivo anticorruzione.

 

In realtà, alcune procedure sono imposte dalla legge 190. Si tratta, per esempio, delle procedure di selezione e formazione dei dipendenti chiamati a operare in settori particolarmente esposti alla corruzione. Idem, quanto alla procedura di rotazione di dipendenti e funzionari in tali ambiti o le procedure di monitoraggio del rispetto dei termini o, ancora, le procedure di individuazione di obblighi di trasparenza ulteriori rispetto a quelli previsti dalla legge.

Laddove siano costituiti referenti, sono necessarie procedure di raccordo e di coordinamento tra responsabile e referenti “in modo da creare un meccanismo di comunicazione/ informazione, input/output per l’esercizio della funzione”.

 

Inoltre, poiché una delle esigenze del piano di prevenzione della corruzione consiste nell’individuazione di “specifici obblighi di trasparenza, ulteriori rispetto a quelli previsti da disposizioni di legge” (1, co. 9, lett. i) della legge 190), occorre fissare procedure di coordinamento tra il piano di prevenzione e il programma triennale per la trasparenza, che dovrà coinvolgere sia le attività sia il coordinamento e collegamento tra le persone deputate a svolgerle. Necessitano, quindi, procedure di raccordo in termini organizzativi tra il responsabile ex legge 190 e il responsabile della trasparenza, fermi restando i compiti, le funzioni e le responsabilità del responsabile per la prevenzione.

 

Si ritiene opportuno, inoltre, fissare apposite procedure riguardanti gli affidamenti senza gara (specificative dei relativi protocolli). Tali procedure dovranno essere finalizzate a un’attenta verifica dei presupposti e a una responsabilizzazione del funzionario o dirigente che si appresti ad applicare una disciplina derogatoria. Analogamente, dovranno essere predisposte apposite procedure (sempre all’insegna della semplicità) per regolare i contatti con gli imprenditori: dove (in quali uffici) incontrarli; cosa dire; chi (della p.a.) deve parlare con tali soggetti; quali informazioni dare; come tracciare l’incontro. Con riferimento alle future gare, per esempio, potrebbe rivelarsi utile la procedura del sondaggio esplorativo da svolgersi in maniera aperta, trasparente e tracciabile.

Ovviamente, questi sono solo esempi generali. Occorrerà, infine, la manutenzione del piano: aggiornarlo quando si accerti la violazione dello stesso o mutamenti nell’ organizzazione o attività dell’ente.

 

 

  1. Conclusioni.

 

Tirando le fila del discorso fin qui condotto, è giusto sottolineare innanzitutto il forte richiamo al rispetto della legalità e della correttezza che ha ispirato l’intervento del legislatore.

La concreta attuazione dei principi ispiratori della l. 190/2012 non sarà facile: occorrerà un periodo di adattamento per le Pubbliche Amministrazioni ed un attento studio dei meccanismi decisionali, che consenta di predisporre adeguate piattaforme regolamentari.

 

Alcune amministrazioni si sono già mosse ed è interessante leggere i primi piani di prevenzione della corruzione adottati.

A tale proposito, si allega alla presente il Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione, redatto dall’A.S.L. di Milano.

 

Torino, 20/1/2014

 

(Avv. Carlo Cavallo)