In tema di riparazione per ingiusta detenzione: presupposti e criteri di quantificazione

Dott. Matteo FERRIONE – Praticante presso Studio Legale Cavallo (Torino)


In tema di riparazione per ingiusta detenzione la giurisprudenza è concorde nel ritenere l’istituto di cui agli artt. 314 e ss. c.p.p una forma di indennizzo (e non di risarcimento), derivando il pregiudizio subito dal detenuto da una legittima attività dell’autorità giudiziaria. La domanda, proposta a norma dell’art. 315 c.p.p., è decisa dalla Corte d’Appello territorialmente competente con ordinanza in esito a procedimento camerale (ex art. 127 c.p.p.).

Ai fini della quantificazione di detta indennità vengono in rilievo anzitutto un criterio quantitativo, fondato sulla durata della custodia cautelare ingiustamente patita e, parallelamente, un criterio equitativo basato sulla valutazione delle conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla privazione della libertà, valutate in rapporto al singolo caso.

Ai fini del criterio quantitativo (o nummario), occorre prendere come riferimento iniziale l’importo economico corrispondente all’indennizzo per un singolo giorno di ingiusta detenzione: valore che si ricava muovendo dal tetto, normativamente stabilito ex art. 315 comma 2 c.p.p., di € 515.456,90 quale somma massima riconoscibile per la riparazione per ingiusta detenzione, e ponendo detta somma in rapporto alla durata (massima) della custodia cautelare che la legge fissa, a livello di regola generale, all’art. 303 comma 4 c.p.p. (così, da ultimo, Cass. pen. sez. III, n. 29965/2014).

Se ne ricava che, secondo la regola di calcolo stabilita dalle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. pen. SS.UU. n. 24287/2001, Caridi):

€ 515.456,90 / (6 anni =) 2.186 gg. = € 235, 82  (per 1 gg. di detenzione)

Solo sussidiariamente a tale quantificazione “aritmetica”, che funge da punto di partenza – secondo la Corte di Cassazione – il Giudice può valutare, in relazione alla specifica situazione, elementi ulteriori al fine di adattare la somma al caso concreto; salva la facoltà di discostarsi da tale parametro standard in aumento o in diminuzione, purché sostenuta da idonea motivazione.

Ciò rafforza e chiarisce, peraltro, la ratio dell’istituto che presuppone, come detto, la necessità di una valutazione equitativa del Giudice, non potendosi accollare all’interessato (richiedente) l’onere di provare il pregiudizio sofferto per l’ingiusta detenzione nel suo preciso ammontare. A tal fine – chiarisce la Suprema Corte -, una volta assunto quale punto di partenza il risultato del calcolo aritmetico, il Giudice non dovrà omettere di considerare, ai fini della decisione, tutte le conseguenze pregiudizievoli che la durata della custodia cautelare ingiustamente subita ha determinato per l’interessato” (Cass. pen. sez. III, n. 29965/2014; Cass. pen. SS.UU., n. 24287/2001).

L’unico limite alla quantificazione finale dell’indennizzo si rinviene, dunque, nel tetto massimo dell’importo riconoscibile ai sensi dell’art. 315 comma 2 c.p.p., che funge in tal senso da mera “base di calcolo” ed assolve ad una funzione “normalizzatrice” tesa a garantire un trattamento tendenzialmente uniforme presso le diverse corti territoriali. Ciò, tuttavia, non esime il giudicante “dall’obbligo di valutare le specificità, positive o negative, di ciascun caso e, quindi, dall’integrare opportunamente tale criterio, innalzando ovvero riducendo il risultato del calcolo aritmetico per rendere la decisione più equa possibile e rispondere alle diverse situazioni sottoposte al suo esame” (Cass. pen. sez. IV, n. 34857/2011, Giordano; Cass. pen. sez. III, n. 3912/2014).

Ricorrono, in particolare, nella giurisprudenza, riferimenti alle conseguenze pregiudizievoli, in termini di discredito del soggetto, derivanti dalla pubblicazione di articoli a mezzo stampa, in qualunque forma e su qualunque supporto. Ciò che ha determinato, in alcuni casi, l’annullamento di ordinanze che avevano deciso sulla quantificazione dell’indennizzo per ingiusta detenzione muovendo dal mero criterio aritmetico, senza tenere debito conto dell’ulteriore danno morale conseguente alla pubblicazione di notizie concernenti l’arresto del soggetto o gli addebiti a lui mossi (Cass. pen. sez. III n. 3912/2014).

In generale – afferma la Suprema Corte – in presenza di elementi che aggravano o alleviano il pregiudizio patito per effetto dell’ingiusta detenzione rispetto al valore “normale” del calcolo aritmentico (quali, ad esempio, il discredito patito per la diffusione di contenuti a mezzo stampa) è preciso dovere del Giudice motivare in maniera puntuale ed esaustiva in ordine ai criteri adottati per la quantificazione finale, sempre tenuto conto della peculiarità del caso concreto (Cass. pen. sez. IV, n. 34857/2011; Cass. pen. sez. IV, n. 1219/2013; Cass. pen. SS. UU., n. 4187/2008, Pellegrino). Nello stesso senso, precisa la giurisprudenza di legittimità, occorrerà tenere conto dei pregiudizi, derivati dalla ingiusta privazione della libertà, incidenti sull’attività lavorativa del ricorrente, sulla sua vita di relazione, sulle attività economiche o sulla sua immagine (Cass. pen. sez. IV, n. 30317/2005).

Quanto agli ulteriori criteri di quantificazione della somma a titolo di indennizzo desumibili dalla normativa in materia di riparazione per ingiusta detenzione, vale la pena di soffermarsi su quello afferente alla condotta del soggetto indagato: questa, in effetti, riveste un ruolo tutt’altro che marginale nella valutazione spettante al Giudice, nella misura in cui – secondo il disposto dell’art. 315 comma 1 ultima parte – può arrivare finanche ad escludere il diritto all’indennizzo qualora, “per dolo o colpa grave”, il soggetto abbia dato (o concorso a dare) causa al provvedimento – pur ingiusto – restrittivo della sua libertà personale.

In tal senso, è stato opportunamente chiarito che, ai fini dell’accertamento della sussistenza della condizione ostativa della “colpa grave” dell’interessato (richiedente), “pur dovendosi considerare l’insindacabile diritto al silenzio da parte della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato (che hanno il diritto di difendersi anche con il silenzio, la reticenza o il mendacio), il giudice ben può valutare il comportamento silenzioso o mendace per escludere il suo diritto all’equo indennizzo (…) comportamento che, per quanto legittimamente tenuto nel processo penale, abbia finito con il non chiarire la propria posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze, a lui note, idonee a contrastare l’accusa o a vincere le ragioni di cautela (Cass. pen. sez. IV, n. 46772/2013; nel medesimo senso già Cass. pen. sez. IV, n. 7296/2011, Berdicchia).

Il descritto profilo di colpa, che assume rilevanza ai fini dell’esclusione del diritto alla riparazione per colui che sia stato ingiustamente detenuto, va dunque valutato con riferimento alle specifiche scelte compiute dall’interessato, e va riconosciuto sussistente in presenza di “condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti”.

Saranno a tal fine valutabili tutti quei fatti i quali (purché sufficientemente precisi e circostanziati), inserendosi sia prima sia dopo la perdita della libertà personale, rivelino che la condotta dell’indagato “abbia ingenerato, ancorché in presenza di errore dell’autorità giudiziaria [si tratta pur sempre di ingiusta detenzione], la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto(Cass. pen. sez. IV, n. 46772/2013).

Non meno importante l’esigenza che, del convincimento maturato sul punto, il giudicante fornisca adeguata e congrua motivazione; solamente i vizi relativi all’idoneità motivazionale, peraltro, saranno censurabili in sede di legittimità.

La Cassazione ha avuto occasione di chiarire, infine, l’illegittimità di qualsiasi automatismo che, in assenza di precisa motivazione inerente le peculiarità del caso concreto, faccia discendere dalla sussistenza di precedenti condanne in capo al richiedente una riduzione della somma di indennità giornaliera ottenuta applicando i descritti parametri (aritmetici ed equitativi). L’orientamento censurato dalla Suprema Corte, invero, era stato fatto proprio da diverse Corti di merito che avevano operato una sorta di automatica e “necessaria” riduzione della somma di indennità giornaliera muovendo dall’asserita minore afflittività che l’ulteriore condanna avrebbe avuto nei riguardi di un soggetto sottoposto già in passato ad uno o più periodi di detenzione carceraria.

La Cassazione ha tuttavia ritenuto di non avallare tale affermazione, censurando – prima di tutto – la carenza logico-argomentativa che la sorregge. Si è così osservato che “una automatica e generalizzata riduzione della somma determinata secondo il c.d. criterio aritmetico per tutti i soggetti che abbiano subito precedenti condanne e precedenti detenzioni, rende la valutazione equitativa priva di un’adeguata e logica motivazione, dal momento che l’esistenza di precedente esperienza carceraria può avere, secondo i casi, sia un effetto di riduzione della sofferenza cagionata dalla carcerazione, sia un effetto di massimizzazione di quella sofferenza” (Cass. pen. sez. IV, n. 46772/2013).